Nel corso di una fiera polemica sui Social Media a proposito dell’appello anti Salvini del mensile Rolling Stone, che personalmente ho trovato paraculo e inutile, qualcuno lo ha paragonato ai manifesti pro Gay Pride di Netflix. Mai paragone mi è sembrato meno calzante.
Il Gay Pride non è una manifestazione politica, non nel senso tradizionale del termine: qui in Olanda il parlamento è pieno di omosessuali di destra e sinistra, maschi e femmine. La questione dei diritti e la lotta contro l’omofobia non sono pertinenza di una parte politica. Tranne in alcuni paesi come l’Italia, dove l’omofobia è al governo. Ma la campagna (pubblicitaria, intendiamoci) di Netflix è identica a quelle che fanno per il Gay Pride migliaia di aziende nel mondo (più sveglie di quelle italiane): Google, Nike, Microsoft, Facebook, e via dicendo. Aziende che non solo hanno una nutrita schiera di dipendenti omosessuali, ma anche un’immenso bacino di utenti gay, e di persone sensibili alla questione. Infine, Netflix ha correttamente, onestamente comperato degli spazi pubblicitari per affiggerci della pubblicità.
Rolling Stone invece ha messo insieme un comunicato “politico”, lo ha travestito da appello di artisti, lo ha stampato sulla copertina (con una frasetta goffa e ipocrita in fondo, “Da adesso chi tace è complice”, prima dichiarazione di gente che ha taciuto una vita intera) e lo ha diffuso il giorno in cui andava in edicola. Non solo: a differenza di Netflix, che ha affisso in metropolitana, Rolling Stone non ha convinto proprio nessuno. I suoi lettori sono tutti già d’accordo. Quindi si tratta di un tipico caso di predica ai convertiti. Una marchetta/marketing da pubblicitario mediocre, che magari funzionerà, ma non serve proprio a niente altro che a rimpinguare le casse del mensile.