Come ogni anno, a giugno (oramai da oltre 10) correggo gli esami dei miei studenti di Antropologia Culturale, aka Storia della Cultura Pop, dello IED di Milano. Da loro mi aspetto che abbiano capito i meccanismi di causa/effetto e le modalità con cui nascono le Culture Pop, e che applichino questo metodo per analizzare un aspetto della Cultura Pop (presente o passato) a loro scelta, che devono condensare in un “elaborato”. Che può essere tutto, testo, video, illustrazioni (con didascalie), etc.
Quest’anno il livello medio è stato alto: argomenti spesso interessanti, esami perlopiù ben fatti, informati e personali. Naturalmente qualcuno ha ancora l’imprinting scolastico e produce una “ricerca”, ma nessuno viene valutato sugli aspetti formali: ho studenti stranieri che fanno fatica a farsi capire, ma quando ci riescono dicono cose molto profonde. Alcuni di loro, che vengono da paesi che non nomino per discrezione, hanno parlato del potere liberatorio della Cultura Pop, individuando in questo aspetto il motivo della proibizione, per esempio del Rock, nel loro paese fino a pochi anni fa.
Tra tutti gli elaborati, qualcuno ha catturato la mia attenzione. Temi azzeccati (come l’ossessione contemporanea per il benessere e la salute), a volte ironici, ben scritti, con uno sguardo particolare (antropologia degli urban explorer, del sexting o di Tinder, visti come fenomeni Pop), oppure molto personali (diversi studenti hanno intervistato persone di un’altra generazione, qualcuno i propri genitori, o parlato di se stessi). Tra i previlegi del mio lavoro infatti c’è anche quello di chiedere agli studenti di analizzare (se credono) la realtà che li circonda, per esplorare il perimetro della loro esperienza Pop. Che nel 2019 ha confini molto incerti, e spesso sfocia in questioni personali, generazionali, di confronto (culturale, e non solo) con la generazione precedente, e con quella dei propri genitori, i quali naturalmente hanno anche loro una propria vicenda Pop (essendo nati nei ’60/70).
Questo procedimento allarga enormemente i miei confini culturali. E mi offre l’opportunità di cogliere alcune sfumature davvero interessanti (oltre che farmi due risate: l’immagine che vedete qui sopra era nell’elaborato di uno studente, tema: i meme/i). In un altro ci ho trovato questa frase, che mi pare bella e istruttiva, specie per quelli della mia età: “Mi fa sorridere quando sento il termine nativo digitale venire usato così a sproposito, come se noi fossimo stati partoriti direttamente in rete, come se nessuno di noi avesse avuto mai bisogno di un’educazione; ora certo, siamo bravissimi a trovare la nostra identità social, a editare delle storie perfette, a far vedere sempre e comunque la parte più bella di noi stessi, ma bisogna considerare tutte le ginocchia sbucciate (se siamo fortunati) che ci siamo procurati per accedere ad una vera consapevolezza del mezzo.”