Insegno dal 2005, e naturalmente questo è stato un processo insieme professionale e formativo. Ho la fortuna di essere portato alla comunicazione e di saper creare collegamenti tra mondi anche distanti (uno dei modi in cui mi guadagno da vivere, non solo a scuola). Però ovviamente nessuno nasce imparato, e in questi 17 anni ho appreso molto sull’arte di essere prof. Ho individuato modalità più efficienti di interazione con gli studenti, ho cercato di applicare metodi diversi dal mio integrando elementi letti o rubati a colleghi più bravi, insomma ho provato a andare aldilà della vocazione per provare a fare questo mestiere al meglio delle mie possibilità. Sono ancora ben lontano dalla perfezione ma in questo tempo due o tre cose le ho capite. Tra tutte ce n’è una in particolare che negli ultimi anni è diventata sempre più chiara: bisogna sforzarsi di essere inclusivi.
Ovviamente se ce lo chiedono, tutti noi diciamo di esserlo e lo siamo: non essendo mai stato sessista, omofobo o razzista posso sostenere di essere inclusivo da sempre. Negli ultimi anni però ho capito che talvolta la mia inclusività non si rifletteva nella mia comunicazione. Occhio: non mi riferisco alla questione di schwa o asterischi, benchè anche quello del linguaggio sia un tema fondamentale per l’inclusività (ma secondo me la ə c’entra poco). Il tema invece mi pare l’angolo, la prospettiva dalla quale si racconta. Io insegno Storia (della cultura Pop, ma sempre storia), e mi sono accorto che (ovviamente) la mia prospettiva “naturale” (maschio, bianco, eterosessuale), pur essendo predominante (anche nella narrazione “ufficiale”) non è affatto inclusiva. E che farei un torto ai miei studenti se non includessi prospettive diverse dalla mia ma fondamentali per capire la realtà presente: gli immigrati di seconda generazione (alcuni dei quali sono miei studenti), così importanti per la cultura Pop del novecento da Scorsese a Lady Gaga, o gli omosessuali (dichiarati o meno) che inventano, animano e interpretano tutta la cultura Pop dall’inizio – quasi sempre sotto mentite spoglie. Per non dire delle donne: Janis Joplin e (in misura minore) Grace Slick vanno celebrate anche come prime vere front-women della storia.
Insomma: io sono woke dalla nascita, sono figlio di una femminista e la mia prospettiva è sempre stata inclusiva. Ma nella comunicazione (bidirezionale) coi miei studenti ho capito che c’è un passetto in più da fare, che il termine “inclusivo” ha lo stesso problema di “tolleranza”: non si tratta di tollerare qualcosa o includere qualcuno, bensì di ripensare il modo in cui si pensa al mondo, un mondo che non dovrebbe avere bisogno di essere inclusivo perché il suo sguardo (in questo caso culturale) include già tutti. Sembra ovvio ma invece non lo è.