Opera, pezzo, operazione artistica, performance: nomi che servono a essere esattamente questo, a nominare e identificare questi oggetti e forme in quanto tali. In certi casi come la Cappella Sistina è ovvio. Ma se mi gratto spasmodicamente in un supermercato probabilmente chiameranno l’Ufficio di Igiene. Se invece lo faccio in una galleria d’arte e la annuncio come “Ex-statica, azione sul vivere contemporaneo”, magari a qualcuno piacerà anche. L’annuncio, la cornice, il buio in teatro servono anche a disporci alla fruizione, a farci entrare in modalità spettatore: adesso inizia lo spettacolo, questa è arte.
Da un po’ di tempo invece sogno un’arte senza cornice, non necessariamente identificabile come tale. A chi gli chiedeva come mai portasse sempre il cappello, Joseph Beuys rispondeva “Quando ho il cappello è arte”; mi pare un ottimo inizio, un sublime start di un nuovo genere di performance, un’arte comportamentale che confina con l’etica da un lato e l’estetica dall’altro. Una azione che coglie chi ne è coinvolto non come spettatore ma come individuo. Un teatro nella vita, che fa succedere delle cose nella realtà e incide in modo non mediato nel mondo. Un’opera senza targhetta, non una rappresentazione ma una present-azione, la differenza tra dire “In un romanzo ho letto una storia che…” e “Lo sai che m’è successo l’altra sera?” Mica poco.