Malgrado le varie interpretazioni diverse sul problema della musica negli ultimi anni (Napster, il P2P, la “pirateria”, etc.), su un dato sembrano essere tutti d’accordo: il mercato è in crisi, si vende meno musica, sta finendo un’epoca. Purtroppo però poi ottenere dei dati dall’industria discografica è sempre difficilissimo. Ecco a che servono gli studiosi: a far saltare fuori dei fatti sui quali studiare per capire e poi discutere. Vorrei quindi ringraziare Fabrizio Consoli, il quale ha avuto la lucidità di chiedersi i quanto, come, perché di questa vicenda facendoci una bella tesi di Economia alla Bocconi, intitolata “Gli effetti della tecnologia digitale sul mercato discografico: il caso del file sharing” (2004). La sua tesi è che il Peer to Peer abbia avuto un impatto diversificato sul’industria musicale, e anzi che in qualche modo abbia giovato (affermazione sacrosanta e documentata). A supporto di questa idea ha cercato dei dati, e li ha fatti saltare fuori nientemeno che dall’IFPI, l’International Federation of the Phonographic Industry. Ecco le vendite globali di musica, divise per formato, dal ’72 al 2002:
Giustamente Consoli prende in considerazione un periodo più ampio degli ultimi 5 anni. La sua analisi parte dall’84, anno di introduzione del CD. Molto corretto: è in quel momento che parte la rivoluzione digitale nella musica che, vent’anni dopo, porterà a Napster. E nel mezzo ci sono stati i masterizzatori, la pirateria (quella vera), le molte campagne anticopia degli anni ’90.
Quello che non c’è nel grafico ma che sappiamo tutti benissimo è che quel gobbone azzurro (le vedite dei CD) nei primi 10 anni almeno è composto per la stragrande parte di ristampe che tutti ci siamo ricomprati: roba che si vende tuttora da sola, senza costi aggiuntivi. E poi le compilation, che vendono moltissimo, i greatest hits, insomma si moltiplicano i reimpacchettamenti: non è un caso che il grafico sia quasi tutto in salita.
Ma c’è un altro dato interessantissimo. Sappiamo che l’industria denuncia un crollo delle vendite: l’8,4% di pezzi in meno tra il 2001 e il 2002. Dice Consoli: “Assale però il dubbio che le lamentele siano più accorate di quanto la situazione non richiederebbe. Dai numeri forniti dall’IFPI emerge un dato interessante. Pare infatti che le case discografiche abbiano ridotto l’offerta di musica, limitando il numero di nuove uscite annuali.” Questo l’avevamo notato tutti, no? Continua però la tesi: “Solo nel biennio 2000/01 negli Stati Uniti, che rappresentano il 39% del mercato mondiale e dove il file swapping è più agguerrito, la quantità di album prodotti si è ridotta del 19%. Non è ovviamente un mistero capire su quali prodotti cada la scelta di non venir pubblicati.” Anche questo l’abbiamo visto tutti: ultimamente dalle major viene pop, solo pop, nient’altro che pop (il termine è “appiattimento dell’offerta”): sono soldi certi. Ma poi un dubbio assale anche me: hanno ridotto le pubblicazioni del 19% e ci perdono l’8,4%? Ma ci pensa Consoli, che di Economia se ne intende, a farlo diventare una lamentela accorata: “Se in termini assoluti il valore del venduto è stato inferiore nel 2002, questo non implica che ci sia stata una riduzione proporzionale del guadagno… Se un settore produce 10 e guadagna 100, e l’anno successivo produce 8 e guadagna 80, ciò non significa che stia perdendo 20.” Se poi invece uno producesse 8 guadagnando 92…
Scompaiono le major? Speriamo: non hanno veramente più niente da offrire a nessuno, a parte dei lauti anticipi tutti però recuperabili. Sono state uccise da Internet? Non parrebbe. Se ne vanno con classe? Macché: denunciano dei minorenni musicofili, rifiutano la buona musica e s’arintontoliscono de’ bugie (loro e noi).
Essendo una statistica assai rara mi pareva giusto renderla disponibile a tutti. Semmai la usaste, non dimenticate di menzionare Fabrizio Consoli e la sua tesi (che speriamo circoli aldilà di questa citazione).