Non amo i necrologi e non li scrivo. Inoltre nelle prossime ore si scatenerà l’inferno, come è giusto che sia: ci lascia Aretha Franklin, una figura essenziale. Talmente gigantesca che è difficile iniziare a descriverla. Ma non serve: la sua è forse la voce più famosa del mondo, certamente la più influente.
Inizierei dagli aspetti negativi. Aretha, per via dei suoi dischi popolarissimi, ci ha abituati a uno standard inarrivabile. Naturalmente non è la sola, ma dovendo scegliere un interprete che ha reso la vita impossibile a quasi tutti i suoi colleghi contemporanei e futuri, lei è al primo posto. Ogni volta che sentiamo una cantante Soul, con rarissime eccezioni, ci scappa il paragone. Inevitabilmente, che sia un derivato o un raro originale. Non solo: Aretha fa sembrare facile quello che invece è difficile, raro, preziosissimo. Questo è un dono di alcuni grandi, abbondante in Aretha Franklin. Come sappiamo bene, lo stuolo delle imitatrici più o meno talentuose è infinito, anche perchè lei lo faceva sembrare semplice. Per gli ascoltatori questo è un dono bellissimo: musica che sgorga come l’acqua che scorre. La tentazione di imitarla però viene, e capisco chi sia rimasto folgorato.
Esiste un prima Aretha Franklin, e un dopo – anche se lei naturalmente non solo è parte di un’antica tradizione (Mahalia Jackson, Bessie Smith, Ella Fitzgerald e via dicendo), ma era parte di una scena musicale, insieme a Sam Cooke, Ray Charles e molti altri. Tra le moltissime cantanti di quel periodo, lei è rimasta sempre due spanne più sopra: la Maradona dell’Ad Lib, la Leonardo del Soul. Per mille motivi, non ultimo che Aretha, a differenza di quasi tutte le sue contemporanee (con alcune rare eccezioni, come Nina Simone), immaginava la sua voce dentro un arrangiamento, spesso (ma non sempre) scritto al piano da lei stessa, e sapeva costruire gemme musicali dentro le quali brillare.
Aretha ci lascia un patrimonio di registrazioni: Gospel (alcune stupefacenti e tutt’ora pietre miliari del genere) e Soul, ovviamente, ma anche Funk e Disco. Come tutti i grandissimi vissuti a lungo, ci lascia anche cose discutibili, duetti spiacevoli, canzoni tragicamente segnate dall’epoca (come certi album anni ’80 e ’90). Ma sull’altro piatto della bilancia c’è il bene assoluto. E quando Aretha mi canta I was blind, but now I see (da Amazing Grace, registrato in chiesa nel ’70), per un attimo ci vedo anche io.