Come sappiamo molto bene, nella ricetta per un buon prodotto pop, oltre a un certo tipo di musica, di esecutore, ecc, c’è un ingrediente assai elusivo e difficile da definire, che però spesso determina il successo o il fallimento dell’operazione: il suo grado di coolness (termine intraducibile se non con l’orribile ma utile “fico”, cioè cool). E se sappiamo tutti che la coolness di Miles Davis o di Jim Morrison in qualche maniera discende dalla loro bravura, sappiamo anche che sono ormai decenni che le industrie del pop, cinema e musica in testa, si adoperano nel tentativo di serializzare la ficaggine di un certo tipo di cantante o attore – in qualche caso riuscendoci perfino. L’esempio più ovvio sono le boy band, o certi attori biondi e intercambiabili che affollano la sterminata produzione cinematografica americana – solo parte della quale, grazie a Dio, arriva qui. La questione della coolness non è affatto secondaria; ci sono intere decadi di storia della musica in cui questo elemento è stato essenziale: Iggy Pop con la panza non sarebbe durato quarant’anni sulla breccia, e perfino un genio acclarato come Bob Dylan non rinuncia, a sessant’anni, al suo aspetto cool (secondo lui: quelli vestiti da cow boy non mi sono mai sembrati cool, bensì dei vaccari; d’altronde, è noto, la coolness è un concetto personale).
All’inizio ci si limitava a puntare su artisti dotati di una naturale attraenza, valorizzandoli ma lasciandoli sostanzialmente inalterati: penso a Elvis, a Hendrix (altro grande genio attentissimo al vestiario) o ai Beatles. Certo che lo stile esisteva già da prima, ma è in questi anni che si precisano i termini della questione: la locandina de “il Selvaggio”, una delle pietre miliari della storia della coolness, fin da subito ha portato gente nei negozi di abbigliamento oltre che al cinema. Negli anni ’60 l’industria discografica fa il primissimo tentativo, l’unico finora riuscito davvero, di serializzare e sistematizzare l’appeal dei propri artisti. Lo fa Berry Gordy alla Motown, creando un dipartimento “Stile e buone maniere” dove agli artisti (come Diana Ross o Stevie Wonder) veniva insegnato a vestirsi, a ballare, a stare sul palco e a comportarsi bene a tavola. Per tutti gli anni ’60 gli artisti Motown spopolano, aiutati anche dalla rigorosa disciplina stilistica di Gordy: Michael Jackson è cresciuto proprio dentro quella label.
Le Major per molti anni hanno inseguito questo genere di status, senza mai arrivarci: negli anni ’70, come scrive Zappa, “assumevano gente con capelli simili agli artisti, nella convinzione che tra loro si capissero”. Purtroppo però così non è stato, e infatti dalla seconda metà degli anni ’70, con Disco e Punk prima e New wave dopo, il mercato della coolness è tornato nelle mani degli indipendenti, che sono stati da allora i veri talent scout della discografia. Poi, una volta stabilita una base di successo (e di credibilità), si passa l’artista a una Major – meglio in grado di gestire i grandi numeri. Funziona così da trent’anni, o meglio ha funzionato così. Oggi infatti, grazie alla rete, la situazione è profondamente cambiata – e la svolta è interessante. La nuova parola chiave, naturalissima per i giovani ma inafferrabile per i direttori artistici e i pubblicitari, è “virale”; un contenuto cioè che circola sotto forma di link o file. Può essere una canzone, un video o un blog, ma è di fatto la prima forma di hit del terzo millennio: istantanea, planetaria, enormemente capillare e le cui ragioni di successo sono spesso incomprensibili, un po’ com’è stato all’inizio del rock’n’roll, o del punk. L’industria, per adesso, sta a guardare. Mi pare una buona notizia.