Tra le notizie pessime di questo inizio 2005, dopo Bush Reloaded e il PM10, c’è lo strombazzato ritorno degli anni ’80. Un fatto orribile, che non vi fa saltare sulla sedia solo perché molti di voi erano troppo piccoli per ricordarsene. Ma io me li ricordo benissimo e saprei bene come accoglierli se ritornassero: a sputi in faccia.
Anni di merda: nasce il plastic pop, la new wave, Mtv, i rampanti; vanno di moda i soldi, le spalline nelle giacche e i capelli dritti in testa. Anni in cui non si lavora (per esempio alla Rai) se non si piace al dirigente socialista di turno, in cui la corruzione arriva anche ai livelli bassi della società (“A Se’, se te serve ‘na casa popolare fammelo sapé”, mi disse una sera uno che conoscevo anni prima, e che nel frattempo era diventato una mezza tacca del PSI, lasciandomi letteralmente di sasso), in cui gli stronzi (che negli anni ’70 avevano dovuto volare molto bassi) rialzano la testa – quella testaccia di cazzo vacua su cui nel frattempo era comparso il gel.
Gli anni ’70 avevano lasciato l’Italia stremata: gli anni di piombo, l’eroina, la fuga in oriente, la crisi delle ideologie, la DC, insomma un disastro. Il periodo successivo, appunto gli anni ’80, si è chiamato “Riflusso” proprio per via della leggerezza e vacuità che l’ha contraddistinto. Dopo il Punk e la Disco (ambedue musiche nichiliste, per versi diversi) arriva la New Wave, inglese, stilosa e moscetta. Certo che in quegli anni ci sono MB, Will Powers, Furious Five e Throbbin Gristle, ma il New Wafer preferisce Bob Geldof, gli Style Council (un gruppo proprio schiumogeno) o perfino i Pet Shop Boys. Gente simpatica e innocua, ma così intenta a prendersi sul serio senza nessun motivo che faceva ridere già all’epoca.
Gli anni ’80 restano nella storia per essere stati i primi in cui tornavano altre decadi. Fino agli anni ’70 si andava dritti e si guardava avanti. Poi sono iniziati i ritorni: gli anni ’30/’40 (con gli immondi Matt Bianco), gli anni ’50 (Un’estate al mare, Tropicana e il finto Rockabilly) e i ’60 (quelli di Red Ronnie, rip); dai ’70 ci stiamo appena riprendendo. Ma se ha un senso rivisitare anni importanti come questi, mi chiedo se ne abbia farlo con una decade di riporto, socialmente, artisticamente e culturalmente rivolta all’indietro come gli anni ’80.
Era tutto brutto? Ovviamente no. New York ha avuto una scena incredibile (tra cui Talking Heads, Laurie Anderson e No New York) e perfino L’Inghilterra, a mollo nella New Wave, ha prodotto mondi come Rough Trade o la prima Virgin, e band come gli Heaven 17. Negli anni ’80 inoltre si consolidano dei generi fondamentali, come l’Hip hop o il Metal, e nasce la cultura della musica fatta con le macchine; escono dischi bellissimi come “Slave to the Rhythm” di Grace Jones o “Echoes” di Wally Badarou (mai sentito? Ecco cos’erano gli anni ’80. Usciva un album seminale, in anticipo di dieci anni – e poi ultracampionato dai Massive Attack – e nessuno se ne accorgeva, tutti distratti dai Soft Cell). In quegli anni si intensifica la frequentazione tra rock e funk, e si affacciano in Europa i nuovi musicisti africani, due fattori che negli anni successivi apriranno alcune belle strade.
Quindi gli anni ’80 non sono tutti da buttare, ma la gran parte sì. E quando sento dire che tornano m’immagino sempre quelli che all’epoca erano felici e contenti (alcuni dei quali sono tuttora in giro a sprecare ossigeno, sempre con quell’aria che hanno già visto tutto) che riprendono a dire ovvietà; che tornano Drive In (nei miei ricordi un orrendo incubo di paillettes e trivia), Morissey (che è già puntualmente tornato, proprio ciò di cui il mondo ha bisogno), Craxi e il Made in Italy. Che ci rimetteremo i pantaloni a palloncino e le spallone larghe, e che si ripresenterà l’orrendo tengentista a propormi delle case popolari o il cazzone con gel e spolverino a spiegarmi lo stile… Speriamo di no, facciamo che dopo i 2000s vengono i 2010s e non i micidiali 1980s, grazie.