Della buona musica ho sempre apprezzato due aspetti, separati e distinti ma ugualmente importanti. Innanzitutto come suona, cosa dice, come mi fa stare, quanta voglia ho di riascoltarla. E poi a cosa serve, che funzione ha, quali sono i suoi effetti sul mondo. Che non è un aspetto secondario, a meno che tu non sia un fan di Jamiroquai (che purtroppo sono tra noi). Ma perfino per quelli di Taylor Swift questo lato è rilevante. Figurarsi per chi ama generi più estremi: uno dei (nobilissimi) motivi per cui il Metal, in tutte le sue forme, è stato così importante nelle province meno battute d’Europa, è perché svolgeva bene la sua funzione: mandare un messaggio chiaro a tutti. Alla scuola, la famiglia, gli amici d’infanzia, il vicinato, la polizia locale: io sono diverso da voi. In questa dinamica c’è un risvolto importante, quello generazionale. I nuovi generi servono da spartiacque: se ti piacciono, li capisci e ne capisci il senso, allora appartieni a una generazione; altrimenti no. E’ stato così per il Jazz, il Rock’n’roll, il Punk, il Grunge, House & Techno, ecc. E chi non coglie, talvolta per motivi di età, ha sempre le stesse reazioni: sufficienza, ridicolo, irritazione, riduzione di fenomeni culturali a “mode”, insofferenza verso l’aspetto, il linguaggio, il suono della musica, i temi trattati. Sempre uguale, da quando esiste la Cultura Pop.
Quando ero guaglione, pure c’era della musica pesante: In the Court of the Crimson King non è un album ascoltabile a volume basso. Già quel suono diceva molto di un teenager che l’ascoltava: non è un caso che la prima volta che mia madre si lamentò per la qualità della musica fu con quel disco. Per me quindicenne fu un’enorme soddisfazione: non solo i King Crimson erano fantastici, ma il loro suono agli adulti sembrava rumore. Io avevo già altri strumenti coi quali irritarli. I capelli, che mi hanno creato problemi con gli insegnanti a scuola, e poi anche con mia madre, che li giudicava prima troppo lunghi, e poi troppo strani. Il vestiario, che compero usato dall’inizio del liceo, con profondo orrore della mia famiglia. Intorno ai 18 incontro il Punk. Del quale la musica mi piaceva, ma l’attitudine, lo stile, il messaggio e l’effetto sul mondo mi sembravano meravigliosi. Le mie prime sortite Punk ottennero un effetto strabiliante: grida per la strada, scompiglio tra gli amici, perplessità della Polizia. Quello stile irritava assai, proprio come i “capelloni” disturbavano la quiete delle città italiane negli anni ’60. Oggi lo sappiamo: mentre la moda domani passa, gli stili si accumulano. Essere Punk oggi naturalmente ha un senso completamente diverso. In Italia. In Thailandia i Punk li rastrellano, li tosano a zero e gli fanno la predica, segno evidente che perfino nel 2018 da qualche parte nel mondo, il Punk sta facendo egregiamente il suo lavoro (vedi foto).
Si potrebbe pensare che oramai in Italia questo meccanismo non funzioni più tanto bene. Specialmente per i genitori che ci sono passati a loro volta. Come ci si regola con un padre che era Punk? Con una professoressa che andava ai Rave? E con la mamma cool che ha visto dal vivo sia i Clash che i Nirvana? Semplicissimo: basta Young Signorino. Da quando è emerso, ha catalizzato l’attenzione di moltissimi miei coetanei, con un risultato esilarante: gente perfino sensata che scrive lunghi post per argomentare puntigliosamente quanto faccia schifo, sia irritante, brutto, tatuato male, vestito peggio, drogato, strafottente, forse perfino illecito. Madri che chiedono disperatamente aiuto su Facebook: “Oddio, mio figlio ascolta la Trap”. Dotti articoli della serie “Dove andremo a finire”. Tutto perfetto, tutto proprio esattamente come allora: insofferenza, miopia, senilità. E di botto un pezzo di una generazione, la mia e quelle intorno, si trasforma nel clone della loro mamma, nella voce di mia nonna: “Questa è immondizia: vuoi mettere ai miei tempi?” Delizioso e davvero perfetto: bravo Signorino. La tua musica non mi interessa, ma di tutto il resto sono un grande fan.