Arte digitale: il Post-sorpresismo

Per anni la Digital Art è stata obbligata a sperimentare ed essere all’avanguardia. Ma finalmente la tecnologia non è più una novità per nessuno, e anche l’arte può rilassarsi e diventare perfino concettuale, restando però piacevole e attraente.

Uno dei grandi problemi dell’arte digitale, nata di fatto all’inizio degli anni ’80, è stata proprio la sua novità; questo fattore ha implicato anni di tentativi, anche molto nobili ma sempre fatti utilizzando categorie antiche, come il romanzo interattivo o la web TV. Ibridi destinati a non funzionare per diverse ragioni, tra cui ne spiccano due. L’interattività applicata al cinema, al romanzo e più in generale alla narrazione ha una grande contraddizione di fondo. Se leggo un romanzo e arrivo alla fine, non voglio essere io a sceglierne il finale, mi guasterebbe tutto il piacere. Preferisco di gran lunga trovarne uno che non mi piace (e chiedermi come mai) piuttosto che sceglierlo io o, peggio ancora, che sia scelto dalla maggioranza degli spettatori (com’era in un esperimento di film interattivo): una svolta generalista impensabile nella personalizzazione totale della tecnologia.

L’altra ragione ha riguardato l’oppressione a volte anche fisica, ma non solo, delle tecnologie. Chiunque abbia provato un casco per la realtà virtuale sa che non è un bel posto in cui trovarsi, e che dopo mezz’ora il fastidio diventa disagio. Per anni poi la tecnologia ha oppresso l’arte con l’eccesso di opzioni, e qui si entra in quella zona di confine tra la dimostrazione di nuovo software e la pirotecnia, dove l’effetto meraviglia prende il sopravvento e l’arte, se c’è, muore soffocata.

C’è voluto quasi un ventennio, ma ormai le nuove tecnologie sono diventate familiari e l’arte digitale, finalmente più libera dalle forme antiche e svincolata dal concetto di effetto speciale, può smettere di essere solo sperimentazione ed iniziare finalmente ad essere anche Arte e basta. Naturalmente questa Arte è in relazione con l’Arte che c’è stata in passato, come è sempre stato da che mondo è mondo; semplicemente usa degli strumenti nuovi, a volte inaspettati, per esprimersi.

Un buon esempio sono i giochi. E’ noto che i giochi di ruolo hanno le loro radici nella letteratura; sappiamo anche che il Signore degli Anelli, prima di essere un gran bel libro e una serie di film di successo, è stato il tentativo di creare un mondo, completo di mappe e di suoi folclori, che è esattamente la direzione in cui alcuni dei giochi più interessanti degli ultimi anni stanno andando. L’enormità geografica di GTA San Andreas (e anche dei precedenti) ha molto di letterario, e la combinazione dei vari generi (sparatutto, guida, ecc.) rende l’esperienza di gioco davvero unica per ognuno. Qui l’interattività (spintissima: posso entrare nel gioco anche solo per guidare un po’, o guardare l’alba sulla baia) non è fonte di sorpresa, ma è il linguaggio normale con cui l’utente/spettatore/giocatore dialoga col gioco/film/software. Voglio dire che GTA è arte? No, ma il congegno, il plot, la visione forse sì – e siamo solo all’inizio.

Curiosamente è proprio un’opera d’Arte sui Videogiochi che mi ha colpito di recente; una semplice idea concettuale (ma anche visiva e filmica), un geniale ready made davvero post-tecnologico. Si intitola Suicide Solutions ed è “la documentazione in DVD, raccolta nello scorso anno, di suicidi commessi in oltre 50 giochi sparatutto in prima e terza persona.” L’effetto è pazzesco: oltretutto quando si muore (buttandosi da una rupe, sparandosi o saltando su una mina) di solito i giochi fanno una musica triste, e la lunga sequenza di suicidi e suoni di circostanza è davvero potente. L’autore si chiama Brody Condon.

Ecco un buon esempio di Arte Digitale meno preoccupata dalla forma (peraltro splendida: i giochi hanno sempre immagini stupefacenti) che dal contenuto, e che riflette su un tema difficile (il suicidio) usando gli strumenti di una generazione considerata a rischio (i teen-ager). Un’arte sorprendente e nuova ma profonda e concettuale: finalmente.