Scrive al giornale un lettore a cui le mie opinioni non piacciono. Si è irritato per le mie idee sul rapporto tra musica e denaro scritte qui a maggio, essendo lui (legittimamente) un paladino del free download. Una sua espressione ha catturato la mia attenzione: “L'”artista” (già la parola dovrebbe essere tumulata tra le scorie della storia)…”
L’ha catturata perché anche io per anni ho pensato la stessa cosa, benché nel tempo la mia opinione sia cambiata. Diciamocelo: “artista” è una parola pelosa, difficile da usare e che suscita sentimenti contrastanti. Sappiamo tutti che esistono figure che lo sono state incontestabilmente, tipo Leonardo o Mantegna; era il loro mestiere, oltre che la loro vocazione, e ci hanno lasciato testimonianze straordinarie della loro sublime arte. Con questo termine non ci sono stati problemi fino al ‘900. Era un ruolo riconosciuto, in certi casi celebrato, e veniva considerato un dono, un’attitudine, una qualità. Naturalmente quel genere di arte portava con se un’abilità tecnica evidente, e nella valutazione del risultato questo elemento era assai importante.
Col ‘900 la questione si complica. L’arte si libera. Innanzitutto smette di essere dipendente dalla chiesa e dai ricchi, entrando nel mercato; e poi si libera anche dal concetto di virtuosismo tecnico, nel tentativo di raccontare cose profonde e personali in maniere profonde e personali. Non solo, ma la società stessa cambia, e così il ruolo dell’artista. Quando nel 1917 Marcel Duchamp espone il suo famoso pisciatoio (“uno degli oggetti d’arte più influenti del XX° secolo”) appare una nuova tipo di artista, il quale può limitarsi a “vedere” l’arte e a mostrarla al pubblico, senza necessariamente doverla fare. Anche nella pittura si affermano nuovi generi, come l’Astrattismo o l’Informale, dove la tecnica è molto meno evidente, e la composizione in certi casi appare casuale (che poi lo sia è tutto un altro discorso). Su questa nuova arte il pubblico divide in due. Quelli più ricettivi, che capiscono il nuovo percorso dell’arte, e quelli che “Minghia, ma questo lo so fare pure io.” Anche gli artisti si dividono, e nasce la figura dell’artista tra virgolette: un po’ coglione, eterno giovane, idealista, a volte depresso, incapace di fare tutto se non le sue opere, tra virgolette pure loro. A questa figura di artista mi sono sempre riferito quando anche io mettevo le virgolette a quella parola. E quando ho sentito degli “artisti” usare quel termine come giustificazione (“sono un artista, non mi occupo di soldi”) ho sempre pensato che una dozzina d’anni in miniera forse avrebbe potuto fargli bene.
Poi, a un certo punto, hanno iniziato a chiamare artista anche me. All’inizio mi incazzavo molto: “Quella parola dovrebbe essere tumulata tra le scorie della storia”, protestavo. Poi ho iniziato a riflettere, e sono risalito alla suddivisione di cui sopra. Il mondo dell’arte è sì pieno di fuffa (e di personaggi fuffa), però poi c’è anche Duchamp, che invece è un artista senza virgolette e con la a maiuscola. O Beuys. O perfino Cattelan, il quale le sue opere le pensa e basta – di solito le realizza qualcun altro. Il che ci porta dritti al pensiero, stavolta completo, del mio lettore ostile: “Il fatto che l’ “artista” (già la parola dovrebbe essere tumulata tra le scorie della storia) per il fatto di aver partorito un’idea geniale dovrebbe potersene stare a casa senza fare una mazza perché i pollastri comprano i suoi dischi…”
E’ chiaro che per lui l’ “artista” (sempre e solo con le virgolette) dovrebbe trovarsi un “vero lavoro”, che avere buone idee e strimpellare una chitarra del cazzo non vale niente, che siamo tutti creativi, che aspettarsi di vivere di musica è sbagliato – e comprarla è da polli. Voi che dite? Tutti in fabbrica, o magari vi viene in mente qualcuno degno di ricevere un compenso, magari equo, per la sua arte senza virgolette?
Nella foto: Fontaine, di M. Duchamp, 1917 (commons.wikimedia.org)