Di recente si sta diffondendo l’abitudine di ingaggiare degli Street Artist per ricoprire le facciate dei palazzi delle città con la loro Arte. Lo fanno le amministrazioni comunali, le aziende private e talvolta perfino i condomìni. Basta muri grigi, riempiamoli con dell’Arte. E se questa Arte è pure bella, come si potrebbe mai dissentire?
Da almeno cento anni, l’Arte si è liberata dall’idea di riprodurre la realtà e di produrre bellezza. Si è andati oltre, con nuove forme che da un lato esploravano i limiti estremi delle tecniche classiche, come pittura e scultura (Impressionismo, Astrattismo, Cubismo, ecc.), a volte per rappresentare sentimenti nuovi. Dall’altro portavano l’Arte in una zona concettuale, proponendo un dialogo nuovo tra artista e pubblico, fatto di affermazioni talvolta bizzarre che costringevano lo spettatore a farsi delle domande, su se stessi e sulla società; per esempio i Dadaisti, i Surrealisti e successivamente tanti artisti contemporanei. Nel corso degli anni, moltissimi di loro si sono misurati con lo spazio pubblico: Joseph Beuys a Kassell, dove ha piantato settemila querce, e Jenny Holzer, che ha usato le insegne di Times Square a New York per diffondere le sue frasi (nella foto, clicca per ingrandire), sono solo due esempi. Però molto raramente gli artisti contemporanei hanno semplicemente esposto le loro opere per strada: i loro interventi sono sempre stati pensati come occasioni per dire qualcosa al pubblico generale, oltre a quello dell’Arte. Pensate al dito medio di Maurizio Cattelan davanti alla borsa di Milano (strategicamente girato verso chi guarda).
Quando è arrivata la Street Art, che esisteva soltanto per la strada, mi è sembrata un’ottima notizia: Arte che voleva dialogare con tutti, e che poneva delle domande profonde su di noi, le nostre abitudini, la società nella quale viviamo. Shepard Fairey, Banksy e molti altri hanno saputo miscelare gli elementi giusti per dover essere considerati Artisti con la A maiuscola, però dialogando innanzitutto col pubblico, talvolta esprimendo idee profonde e urgenti. Poi la Street Art è diventata popolare, e ha perso un pochino di mordente: non mi meraviglio, succede sempre così. Però oggi mi pare che si sia perso totalmente il senso della questione.
Due esempi: la Street Art del Giardino delle Culture di Milano, realizzata da Millo, e quella di Jorit in giro per Napoli. Il primo è un immenso progetto grafico in due parti, che occupa gli interi lati di due palazzi. Una raffigura un cercatore di cuori rossi e soffici in una città in bianco e nero. L’altra mostra una bambina abbracciata al cuoricione rosso. Graficamente l’opera è impeccabile, ha uno stile originale e decora perfettamente quell’angolo di città. Piace alle mamme, ai figli e ai negozianti della zona. Il messaggio è ottimista: cercare dei cuoricioni in questa città brutta e grigia ancora si può. Invece le grandi facce di Jorit a Napoli hanno un impatto più deciso: figure della società civile e della cultura Pop, ritratte in primo piano. Le dimensioni sono gigantesche, le immagini bellissime, tutte unificate da un tratto comune: dei segni “tribali” sulle guance. L’impatto è forte, qualcuna fa discutere (ma insomma), altre sfondano porte aperte: il ritratto di Maradona a Napoli non può che fare furore. Sia le opere di Millo che quelle di Jorit sono anche delle splendide opportunità di selfie: da ogni angolo, con ogni illuminazione, i mi piace sono garantiti.
Io naturalmente sono molto favorevole al miglioramento del paesaggio urbano, dai cestini della spazzatura ai vespasiani, dalle pensiline degli autobus fino alle facciate dei palazzoni. La decorazione cittadina mi trova completamente d’accordo: soldi ben spesi. L’abbellimento degli spazi pubblici mi sembra lodevole, che sia piantare degli alberi, decorare gli autobus, coprire le impalcature o commissionare delle pitture decorative. Solo per cortesia, non chiamiamola Arte.