Rientro oggi dal Marina Café Noir (marinacafenoir.it), un bel festival internazionale di letteratura – piccolo ma cazzutissimo. E’ animato da un’associazione culturale, il Chourmo (chourmo.it), e quest’anno è alla quinta edizione. Si svolge in un quartiere storico di Cagliari, la Marina, che per tre giorni diventa un luogo di discussione, lettura e allestimento di varia letteratura. Moltissime le presenze italiane e internazionali, anche di livello molto alto (c’erano anche Marc Augé e Bjorn Larsson, e tra gli scrittori italiani Philopat, Wu Ming e Letizia Muratori – oltre a Emanuele Crialese e Max Casacci – il vero intellettuale della scena musicale italiana). Quasi tutte queste persone, oltre a discutere di letteratura (propria o altrui), sono state coinvolte in allestimenti originali delle loro opere; alcuni dei quali riuscitissimi, come la lettura dei Wu Ming (da Manituana) con musica dei Sikitikis o quella di Philopat (da Lumi di Punk) con gli R.C.R. Insomma un bel festival, i cui appuntamenti erano tutti gratuiti: un’occasione unica di incontro e scambio di idee per i cagliaritani tutti – dai goth ai librai, dai curiosi ai pasdaran della lettura. L’entusiasmo del pubblico era tangibile e gradevolissimo, la partecipazione numerosa.
L’Italia non è affatto avara, da questo punto di vista: a fronte dei grandi festivaloni sempre più impossibili (come Mantova, dove bisogna prenotare l’albergo un anno per l’altro, giusto per restare nel ramo lettere) ci sono decine di microfestival, due giorni, rassegne pensate in maniera a volte geniale da gruppi di persone intensamente motivate. Ce ne sono al nord come al sud, occasioni musicali, cinematografiche o letterarie – ma con alcune caratteristiche sempre presenti. Sono organizzate da associazioni culturali, che sono in realtà gruppi di amici con una passione comune e (almeno all’inizio) del tempo libero. Naturalmente poi magari si arriva a costruire un piccolo reddito, ma è molto difficile farlo mantenendo una dimensione locale, che invece è spesso irrinunciabile: anche Umbria Jazz è nato da un piccolo gruppo di appassionati, ma dubito che oggi ne sia rimasto qualcuno, e comunque certamente lo spirito delle prime edizioni si è perso: però è diventato un festival importantissimo, noto in tutto il mondo.
Chi organizza questo genere di festival abitualmente è il proprio primo spettatore: nella maggior parte dei casi cerca di far venire persone che vorrebbe incontrare – o magari che vorrebbe far incontrare. L’operazione è naturalmente non priva di rischi, ma nel caso funzioni, allora funziona davvero: non c’è niente come delle belle teste che mettono insieme delle altre belle teste, e si diventa dei bravi remixatori culturali anche tentando operazioni così, magari azzardate ma “de core” – come spesso succede in questi contesti. L’Italia dei microfestival è un patrimonio preziosissimo, forse la sola vera rete culturale esistente in questo paese estenuato dall’ignoranza.
Naturalmente, e ci mancherebbe altro, molti di questi festival godono di finanziamenti pubblici attraverso gli enti locali o, in certi casi, le Università. A volte organizzare un festival (che implica mesi di lavoro) produce anche una qualche forma di reddito per chi lo organizza. Negli altri casi, la maggioranza, si va dal pareggio al volontariato secco. I finanziamenti infatti non arrivano che in rari casi a coprire davvero i costi di un festival; per il resto ci si affida al desiderio di farlo succedere, all’ostinazione degli organizzatori, alla voglia di curatori, scrittori, musicisti, registi e performer di fare accadere qualcosa di rilevante, perché altrimenti c’è la morte della cultura. Il fatto che chi governa questo paese si affidi alla disperazione della gente per far succedere degli eventi culturali è orribile. Così mostruoso che, se ci fosse un Dio, le loro anime sarebbero maledette fino alla fine del tempo. Per loro fortuna invece non c’è.