Spesso, in momenti di crisi economica come questo, ci si chiede se sia giusto spendere denaro pubblico per finanziare progetti culturali, o se invece non sarebbe meglio investire in cose più pratiche, che generino posti di lavoro, o salvare industrie e banche in crisi. Il dilemma mi pare legittimo, anche se naturalmente molti di noi la pensano allo stesso modo: la cultura è importante, e nutre tanto quanto il pane. Ma in una crisi grave come questa, magari ci sono delle priorità più urgenti. Ci riflettevo l’altro giorno (sono sempre negli USA, dove molto si discute sulle misure anti-crisi della nuova amministrazione), e mi è tornata in mente una storia molto pertinente.
Siamo ai tempi dell’altra grande crisi finanziaria americana, La grande depressione; nel ’29 crollano le borse, la disoccupazione schizza alle stelle e la gente fa la fame. Nel 1933 viene eletto presidente Franklin Roosevelt, che dà vita a un piano di salvataggio dell’economia noto al mondo col nome di New Deal: tra gli scopi di queste misure c’è quello di dare un posto di lavoro a chi l’ha perso. Sono tempi duri per gli intellettuali, che la maggioranza delle persone considera a malapena utili in tempi di vacche grasse ma dannosi (e costosi) non appena c’è un po’ di incertezza. Noi italiani lo sappiamo bene, e la rozzezza delle dichiarazioni dei governanti italici ce lo ricorda spesso, anche di recente. Roosevelt per fortuna la pensava diversamente, e perfino nel periodo iniziale della sua presidenza fece sì che i soldi per la cultura non mancassero.
Tra i beneficiari di quei finanziamenti ci fu anche un etnomusicologo e folclorista, John Lomax, che ne ottenne uno per documentare, attraverso registrazioni sul campo, la musica degli afro-americani. In una serie di viaggi nel sud degli USA, il primo nel 1933, Lomax scoprì e registrò una grande quantità di musicisti fino a allora sconosciuti al mondo, tra cui il leggendario Huddie Leadbetter, noto come Leadbelly. Suo figlio Alan, sempre grazie a finanziamenti pubblici, tornò molte volte negli stati del sud, e in particolare in Mississippi, mettendo sulla mappa della musica mondiale delle figure di primissimo piano: uno per tutti, Muddy Waters. Fu Lomax il primo a registrare Waters (nella sua casa, 1941); se volete leggere il commovente racconto di prima mano dell’episodio, è su Wikipedia (alla voce Muddy Waters).
Posso immaginare la reazione dei Borghezio americani dell’epoca: soldi buttati, nessun posto di lavoro creato, musica da negri, etc. La storia invece racconta tutta un’altra vicenda – e un esito davvero diverso. Le registrazioni dei Lomax, nel frattempo diventate popolarissime (e parte del patrimonio dell’umanità), hanno avuto un duplice risultato: da un lato hanno consentito al mondo di scoprire e apprezzare dei talenti assoluti, come Leadbelly, Waters o John Hurt. Ma il risultato più rilevante mi pare un altro: questi dischi sono stati venduti in milioni di esemplari, e hanno dato vita a centinaia di sottogeneri, dal Rock’n’Roll al Soul fino alle musiche moderne – con un risultato inaspettato: la creazione di un’industria, di milioni di posti di lavoro, e l’affermazione della (innegabile) supremazia statunitense nella musica Pop contemporanea. Risultati assai tangibili (il business della musica qui è enorme, e in gran parte invisibile dall’estero), culturalmente ma anche economicamente: a conti fatti probabilmente sono stati i soldi spesi meglio da quella amministrazione – anche proprio in termini di risultato economico.
Mentre scrivo gli occupanti del centro sociale milanese Cox 18 hanno ripreso lo spazio di via Conchetta, sgomberato a brutto muso dopo oltre 30 anni di vita – e di servizi culturali alla comunità. Ecco un altro esempio di miopia amministrativa che impoverirà non solo la vita presente della città (già alla canna del gas), ma in futuro anche quella economica: senza centri sociali, dove si andrà a suonare musiche non esattamente (o anche non ancora) Pop?