All’inizio la musica era ovunque. Ovunque ci fosse un musicista, naturalmente. Ma all’inizio (tanto per essere pomposi diciamo all’inizio dei tempi) non esisteva la distinzione tra musicisti e dilettanti, quindi la musica era ovunque ci fosse qualcuno che ne produceva. Fino all’avvento della riproduzione sonora (alla fine dell’800) la situazione è rimasta invariata, e perfino i primi modelli di grammofono, a carica meccanica, consentivano di riprodurla ovunque: indimenticabile la scena del film Fitzcarraldo di Werner Herzog, dove il protagonista diffonde la voce di Enrico Caruso lungo il Rio delle Amazzoni dalla sua nave. Poi sono arrivati l’elettricità e il giradischi da salotto, ma la portatilità è sempre rimasta un’esigenza sentita; infatti i due oggetti icona della musica anni ’60 sono la radiolina a transistor e il mangiadischi, strumenti tipici del rompiscatole da spiaggia, ma anche evidenza della natura nomade del suono.
Ricordo con emozione il mio primo walkman. Io appartengo alla generazione che ha visto arrivare lo stereo in casa, poi faticosamente traslocato dal salotto alla stanzetta. La musica della mia formazione, quella degli anni ’70, era pensata per un ascolto concentrato, prolungato, in certi casi psichedelico, e certamente indoor. Quindi l’arrivo del player a pile con cuffietta (il mio era un modello piuttosto ingombrante, ma con un optional lussuosissimo: due microfoni per la registrazione stereo) per me fu una vera liberazione. Andavo all’università a Bologna, e passavo le mie serate in bici, col walkman a palla, pedalando come un forsennato e cantando a squarciagola. La gioia era duplice: da un lato di aver svincolato la musica dalla presa di corrente, e dall’altro di poter aggiungere una colonna sonora alla realtà. Oggi suona scontato, ma poter fare la spesa ascoltando i Black Flag (eccellente metodo per evitare spese superflue), o attendere in aeroporto con Music for Airports di Eno era una grande rivoluzione, per la quale si sono spese parole grosse (secondo me giustificate): la colonna sonora della vita, la sonorizzazione della realtà, il film del mondo, ecc.
Oggi ci siamo abituati, abbiamo tutti un player mp3 (che a volte inizia con la I), ne vediamo decine in autobus e c’è gente che non potrebbe mai più vivere senza (un po’ esagerato secondo me: è vero che il soundscape urbano è sempre più spiacevole, ma l’ascolto di questi suoni casualmente mixati continua a costituire una delle esperienze più sorprendenti della mia vita acustica). Però anche la tecnologia si muove, e oggi offre a musicisti e sound designer una nuova possibilità espressiva: comporre una colonna sonora specifica per un luogo, un quartiere, un muro – o anche una pagina. Il metodo si chiama Codice QR e non è nuovissimo. Però oggi, grazie alle connessioni mobili e a strumenti sempre più potenti, è finalmente utilizzabile quasi da tutti. Il sistema è semplice: compongo una sonorizzazione specifica per un incrocio, la metto online, dopodiché stampo su un adesivo il codice QR con l’indirizzo del file audio e lo appiccico sul semaforo. Utilizzando un telefono con connessione e fotocamera (non necessariamente con la I nel nome) si può leggere il codice e ascoltare in tempo reale, dalla rete, quel brano in quel luogo. Al momento sto lavorando a un radiodramma site-specific che utilizza questa tecnologia: storie ambientate in certi luoghi, e ascoltabili solo in quei luoghi. Gli sviluppi naturalmente sono milioni, dalla pubblicità (che già ne fa uso) fino all’inclusione di musica nelle riviste. Quello che vedete in questa pagina è il codice QR di un brano realizzato nel 2008, che secondo me potrebbe essere una curiosa colonna sonora per sfogliare InSound. Andate in rete, cercate il software (solitamente gratuito) per il vostro telefono (o PC: anche le webcam leggono il Codice QR) e buon ascolto.