I luoghi comuni sono terribili per molte ragioni. Una di queste è che spesso sono presentati come delle ovvietà, come questioni lampanti e chiare: ieri era meglio di oggi, vuoi mettere mangiare sano, rosso di sera… Ecc. Se poi un luogo comune lo si ripete un numero sufficiente di volte, questo pare diventare una verità incontrovertibile, su cui non c’è niente da discutere. Spesso il luogo comune reiterato è malvagio, cioè è stato creato e diffuso per scopi non immediatamente evidenti. Un buon esempio sono le supposte grandi qualità del vino (che fa buon sangue, fa bene alla salute, all’umore e via dicendo): secondo voi se l’Italia non ne fosse il principale produttore mondiale (in termini di quantità), Rai Uno dedicherebbe degli speciali agli effetti balsamici di questa gloriosa bevanda? Forse in Colombia fanno lo stesso con la Coca? Eppure esistono saggi e testimonianze anche illustri sugli effetti benefici del consumo (moderato) di Cocaina.
Tra i miei luoghi comuni preferiti ce n’è uno che periodicamente torna in forme sempre più curiose, almeno per me: la fuga dei cervelli. Si definisce così l’emigrazione di laureati e intellettuali, “costretti” a andare altrove da un paese ingrato e incapace di offrire loro delle prospettive. Intendiamoci: l’Italia è certamente un paese ingrato che offre poche prospettive (che siate astrofisici o operai dell’Ilva), dal quale andarsene è semplicissimo (e sorprendentemente piacevole) e tornarci è sempre un viaggio nel tempo oltre che nello spazio: il passato mitico (lo stesso che ha prodotto il nostro vino sublime) qua non lascia mai spazio a un domani fulgido, ma bisogna restarci aggrappati che sennò arriva il futuro – cupo e minaccioso.
Però nel 2013 la storia della fuga dei cervelli fa ridere, e molto. Non siamo mica nel 1913, quando partivano “i bastimenti per terre assai lontane”, gli emigranti portavano tutto quello che possedevano nella proverbiale valigia di cartone e molto spesso partivano per non tornare. Oggi invece abbiamo i voli low-cost, si va e si viene con grande semplicità e non c’è neanche bisogno di portarsi dietro la foto di famiglia: c’è Skype. Di più: oggi viviamo in un mondo sempre più globalizzato, dove i centri di eccellenza nelle varie discipline sono sparsi in giro per il pianeta. Se ti occupi di restauro e sei coreano, è molto facile che venga a studiare in Italia, dove – dicono – siamo maestri. Il cervello del coreano sta scappando? Macché: si specializza, si evolve, va dove può progredire. Se ti occupi di tecnologie e ti offrono un lavoro al MIT di Boston, non stai emigrando – te e il suo prezioso cervello – ma andando nel posto dove si esprime la massima eccellenza nel settore. Non c’è alcuna sconfitta in questo, anzi: che ci stai a fare in Italia? Fai l’olio d’oliva digitale?
Dice: “Ma se noi offrissimo ai nostri giovani delle opportunità adeguate, questi non dovrebbero andare a lavorare altrove.” Questa è una sciocchezza. Innanzitutto perché andare altrove è già un valore in se, una strategia per progredire. Poi perché il mondo è bello in quanto vario, e a noi piace così no? Per quale ragione dovremmo costringere dei brillanti giovani a rimanere indietro? Tutto il mondo corre verso la Silicon Valley perché oggi quello è il centro dell’innovazione tecnologica, e nessuno vede in questo una sconfitta. Si va, si progredisce e poi magari si torna, o ci si sposta altrove. Eh sì, perché dietro l’idea della fuga dei cervelli c’è un’altra sciocchezza: che l’emigrante desideri intensamente di tornare ma non possa. Magari qualcuno c’è, ma la gran parte dei cervelli scappati sta benissimo dov’è, è italiano in un modo obliquo, quando gli tocca tornare lo fa sempre con fatica, ha un atteggiamento anche critico verso il paese dove vive ma una cosa gli è ben chiara: l’Italia sarà anche il paese più bello del mondo, ma la bellezza nella vita non è tutto – salvo a essere delle Veline.