In un mondo sempre più devoto al battibecco è difficile parlare di Charles Manson, appena scomparso, senza che si scateni il finimondo. Il dibattito si polarizza, c’è chi inneggia, chi condanna duramente, e si rischia di perdere un’occasione per parlare di quei morti, di Charles e un pochino anche di noi, e del nostro modo di capire il mondo.
La vicenda è notissima: Manson è il leader di una comune americana di ispirazione Hippy, e esercita una potente fascinazione sui componenti di quella che i media chiameranno The Manson Family. Nell’agosto del ’69 un gruppo di loro, composto perlopiù da donne, commette alcuni crimini particolarmente efferati, noti col nome di omicidi Tate/LaBianca. Dopo alcuni mesi, diversi componenti della Family vengono arrestati, processati e condannati. Non sembrano esserci dubbi sulla colpevolezza di queste persone, Manson in quanto ispiratore e Susan Atkins, Linda Kasabian, Patricia Krenwinkel (la donna da più a lungo in carcere in California) e Tex Watson come esecutori materiali. Non vengono giustiziati solo perché in quegli anni la pena di morte era stata sospesa. Al momento tutti i responsabili ancora vivi sono ancora in prigione, nonostante le ripetute richieste di libertà vigilata: quel crimine è talmente scolpito nella psiche collettiva che non può esserci alcuna clemenza. Arrestato quasi subito, Charlie resta in carcere fino alla morte, a 83 anni.
Manson diventa uno dei criminali più noti al mondo. E suo malgrado incarna una quantità infinita di fenomeni ben più grandi di lui. La fine degli anni ’60: si dice che gli omicidi della Manson Family, la cui vittima più nota è Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, incinta di otto mesi al momento della morte, abbiano chiuso culturalmente quella decade, storicamente così importante. Una certa deriva mistico/sessual/delirante che ha ispirato l’immaginazione di molti: c’è un intero filone cinematografico (di youthxploitation, talvolta softcore) che si ispira (anche) alla vicenda di Manson. Nell’immaginario collettivo la Family diventa il modello terrificante per ogni futura comunità di giovani, magari un po’ irregolari, con un leader carismatico. Chi ha visto Mindhunter sa che Charles era una star perfino per l’FBI, che cercava di capire (più o meno scientificamente) il fenomeno dei Random Killer. E dopo l’ultimo arresto Manson si incarica, con successo, di impersonare il Male Assoluto. Per la società occidentale diventa l’incarnazione vivente della malvagità: rilascia dichiarazioni estreme, si tatua una svastica in fronte, si comporta da Rockstar. E lo diventa davvero: è oggetto di ispirazione, di omaggio e reverenza da parte di un vasto universo Punk/Teenage/Rock’n’roll/True Crime/Underground interessato, magari anche solo esteticamente, più al male che al bene. Lui non ha davvero niente da perdere. A 32 anni ne ha già passati più di metà in carcere. Imprigionato definitivamente a 35, trascorre i successivi 48 in custodia protettiva (perché se lo ammazzavi, entravi nella Storia) prima di andarsene l’altroieri, come riportato in grande evidenza dai media del mondo intero: Charlie è uscito di scena con tutti gli onori.
Ovviamente bisogna ricordare che era colpevole di aver ispirato gli omicidi Tate/LaBianca, e oggi possiamo dire che ha scontato la sua pena per intero. Non credo ci sia molto altro da capire intorno al personaggio, non c’è una morale, il finale era noto. La sua è certamente una vicenda fuori dal comune, che definisce in parte la narrativa “negativa” sui favolosi anni ’60 – innanzitutto nel pensare collettivo, poi nell’immaginazione maschile (le donne ammaliate dal carisma, la comune hippy, orge e droga), e in quella di moltissimi teenager (e non) “in una certa fase”. E dimostra in modo perfetto di come la società intera (magari legittimamente) abbia bisogno di incarnare il male in una persona, che in certi casi diventa un simbolo. Negli scorsi 50 anni, senza alcun dubbio, questo onore è toccato a Charles Manson.