Computer ben temperato

Uno dei momenti in cui mi sono reso conto di appartenere a una generazione antica è stato quando, dopo aver imparato a fare musica col PC nella combinazione computer Atari e software Cubase (lo standard di fine anni ’80) e averlo fatto per anni, qualcuno mi ha detto: “C’è una nuova versione di Cubase, e anche il computer è un po’ vecchiotto.” Ebbi un piccolo corto circuito: il mio amatissimo Atari e il mio Cubase erano diventati talmente personali da essere come un violino o una chitarra. Mi ero affezionato a quella tastiera, avevo appiccicato degli adesivi sul monitor, insomma consideravo l’hardware (e il software in esso contenuto) come uno strumento in senso classico – che si può amare anche fisicamente. Figurarsi se li avrei mai scambiati per altri oggetti. Come una chitarra invecchia insieme a noi, così ha fatto il mio Atari: ho comperato un altro computer per farci tutto il resto, ma il mio “strumento musicale” è rimasto sostanzialmente lo stesso per quasi dieci anni. Poi sono definitivamente migrato altrove, ma dopo un distacco lunghissimo, quasi patologico. C’è da dire che la tecnologia MIDI è stata così longeva (e nata già quasi perfetta trent’anni fa) che non ho avuto bisogno di cambiare sequencer, mentre le periferiche (cioè gli effettivi strumenti musicali MIDI) naturalmente sì. Solo qualche anno dopo aver smesso l’Atari sono passato a sistemi con audio digitale – una notevole piroetta, che ha richiesto molti mesi di rieducazione.

Questa ormai è una regola che conosciamo tutti molto bene: affezionarsi alla tecnologia non è, tranne in rarissimi casi, una scelta saggia. Ho posseduto dei laptop che ho amato molto (io sono sempre in giro, e il computer ormai fa parte della mia schiena, nello zainetto), ma che a un certo punto sono diventati inutili. Non morti, che sarebbe una fine brutta ma onorevole ma inutili, passati, non fanno cose che quando li hai comperati non c’erano (magari solo tre anni fa); i video sono più pesanti, le applicazioni richiedono più memoria. La stessa cosa è vera per le macchine fotografiche, vittime di quella che io chiamo la Maledizione dei Megapixel: la foto che oggi ti sembra perfetta, tra due anni sarà così così, mentre quella del vicino (macchina nuova, doppio dei tuoi megapixel, metà del prezzo della tua due anni fa) sarà assai più verde. Anche gli strumenti per fare la musica digitale funzionano così: il plugin di oggi beve più RAM di quello di ieri, ma suona meglio.

Però la mia migrazione definitiva dalla piattaforma Atari/Cubase ha prodotto un risultato inaspettato. Non mi sono mai più affezionato a una combinazione Hardware/Software e le uso tutte, in maniera assai casuale. Ho lavorato con Pro Tools, poi Logic, mi piace molto Reason, mi attira Live ma non snobbo Fruity Loops (che si è rifatta l’immagine e si chiama FL qualcosa), le tastierone da piano bar (ce ne sono di mediorientali favolose) e, se esiste, il software musicale dei Puffi. Insomma mi sono accorto che quello a cui ero affezionato non era l’interfaccia, e nemmeno l’oggetto stesso bensì il processo di composizione digitale, e i suoi effetti perfino ambientali sulla mia giornata, la mia casa e il mio umore. Quindi non mi mancavano ne’ l’Atari e il suo elegante bianco e nero, ne’ l’interfaccia del vecchio Cubase, forse insuperabile. Potevo utilizzare quel linguaggio e metodo con qualsiasi altra macchina digitale e software diversi (perfino non musicali) ottenendo lo stesso risultato – sonoro ma soprattutto nel senso del processo, che per me è una parte essenziale del lavoro.

A proposito: ultimamente pratico uno sport estremo che dovreste provare – il feedback modulato da Skype. Servono due laptop nella stessa stanza: vi chiamate a vicenda, alzate i volumi di microfoni e casse e poi, avvicinando e allontanando i due computer, suonate il feedback – che se c’è traffico ha pure del delay. Si può guarnire con un simulatore di ampli.

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