(Testata: Mucchio Selvaggio)
Forse qualcuno di voi lettori che frequenta la rete l’avrà già sentito dire: la Siae ha chiesto ad un sito musicale italiano, Rockit (www.rockit.it), di pagare i diritti sulla diffusione di campioni di 30/50 secondi di musica, ascoltabile ma non scaricabile, che corredavano ogni recensione (mica male: immaginate se si potesse fare anche sui giornali). La risposta di Rockit è stata di togliere la musica dal sito e di farne una questione di principio: noi, dicono, siamo un piccolo sito no-profit che “che fa un’opera di diffusione e valorizzazione del patrimonio musicale (italiano)”, e quindi non dovremmo pagare diritti. La Siae, dando prova di una flessibilità rara per un’istituzione del genere, ha accettato l’obiezione ed ha aperto un dialogo sulla questione (con loro ed altri soggetti analoghi); una questione che tutto è tranne che semplice.
In Italia non esistono meccanismi di protezione del patrimonio musicale “vivente” (mentre i musicisti morti sono oggetto di venerazione e stanziamento di fondi); in Francia, ad esempio, c’è un sistema di quote che prevede per ogni artista straniero che suona dal vivo un gruppo spalla locale; che questo sistema piaccia o meno, è comunque un segnale di attenzione da parte delle istituzioni, ed è solo un esempio. Nelle regioni italiane dove si è fatta una politica di sale prova a prezzo basso o di incentivi ai locali che programmano musica italiana, i risultati si sono visti. Ma nel 99% dei casi l’iniziativa è lasciata in mano agli Sponsor, bevande alcoliche a cui non gliene fotte proprio niente della musica italiana: una prassi scellerata che non può che inaridire la scena. E non c’è redenzione: all’orizzonte ci sono solo una legge scritta da Veltroni con dei suoi amici (che fin’ora non è stata mostrata a nessuno di noi) e un vago proclama dei Verdi; è ovvio che dall’alto non è lecito aspettarsi nulla – se non magari una nuova tassa sulle Fender. D’altronde, che gliene viene ai politici se la scena musicale italiana cresce?
In questa situazione c’è Rockit, un gruppo di ragazzi/e entusiasti/e che fa un sito il cui sottotitolo è “Solo Roba Italiana”. Il tutto è completato da una rivista di carta, distribuita gratis e da qualche intelligente sortita discografica (come un cd con dentro più di quattro ore di musica inedita in mp3, regolarmente bollinato dalla Siae). Lo stile è quello delle fanzine (di fascia alta), lo spirito è chiaramente genuino, gli strumenti utilizzati sono i soli che un gruppo di 20/25enni può immaginare in un paese dove si sovvenzionano i Pavarotti e si lasciano schiattare d’inedia i Disciplinatha: gli sponsor, i banner pubblicitari, l’abbonamento alla fanzine, etc.
E’ evidente che questa è una stortura: ma come, questi valorizzano la musica di base, forniscono un servizio a migliaia di giovani musicisti (le recensioni dei demo servono molto a chi inizia: ce l’avessi avute io), senza fare distinzioni di genere, solo sulla base del fatto che sono italiani, e il Ministero dei Beni Culturali non lo sa? E i “Progetti Giovani” dei vari comuni di queste migliaia di giovani non si sono mai accorti che c’è Rockit che offre un servizio? Come sappiamo benissimo la risposta è no. Ed ecco entrare in scena la Siae: su mio mandato (io sono un musicista iscritto) la Società incassa a mio nome i denari generati dallo sfruttamento della mia musica. E io ne sono felicissimo: se RaiTre usa un mio pezzo io esigo di essere pagato, e se non accade mi arrabbio assai; lo stesso vale per un sito web. Questo lavoro di controllo sulla rete è in realtà encomiabile, e serve ad impedire che della gente di merda si faccia i soldi alle spalle di poveracci come me (e il 90% degli iscritti lo sono). Non dimenticate mai che la Siae ha avuto una lunghissima causa contro Mediaset proprio sulla questione del pagamento dei diritti. La sola eccezione prevista è se qualcuno fa un uso didattico e non commerciale della musica: in quel caso può usarla liberamente.
Succede un giorno che la Siae visita Rockit, e trova un sito ben fatto che ha un sacco di collaboratori, dei banner, frequenti inviti (simpatici e insistenti) a comperare spazi pubblicitari svenduti ad una miseria e una montagna di recensioni, corredate da files realaudio, alcuni anche di artisti iscritti alla società. Sembra un piccolo business, e la Siae quindi procede d’ufficio; Rockit reagisce creando un caso (piccolo ma interessante) e la situazione si complica. Ma è semplicemente bastato spiegare ai due interlocutori come stavano esattamente le cose (cosa non chiarissima da subito) per capirsi subito tutti meglio. E questo non deve meravigliare nessuno, perché mi pare evidente che la Siae abbia tutto da guadagnare, anche in termini brutalmente economici, dalla crescita globale della scena italiana, esattamente come me, come il Mucchio Selvaggio e come Rockit. Come mi sembra altrettanto chiaro che senza adeguati meccanismi di sostegno (quali potrebbero essere è l’oggetto di un altro romanzo) si cresca lentamente e con difficoltà. Questo l’hanno capito molte società degli autori europee, e ci sta arrivando (con calma) anche la nostra: ci sono settori della Siae (tra cui proprio quello multimediale) che stanno davvero cercando di rinnovare le idee ed aggiornare le procedure, e credo che abbiano diritto ad una chance. Dopotutto la Siae finanzia Arezzo Wave per la sola ragione che diffonde musica italiana, e potrebbe fare moltissimo se si attivasse davvero su questo fronte (sapendo però rimanere fuori dalla vecchia prassi di favorire i potenti ed accanirsi sui poveracci).
Dal punto di vista del bene della nuova musica italiana Rockit è comunque un servizio eccellente (fosse anche solo per quel “Solo Roba Italiana”), che va incoraggiato e sostenuto, e che però adesso deve scegliere (insieme a molti altri) cosa vuole fare da grande: se vuole può essere un sito commerciale (che va benissimo – io campo di musica) che vive di pubblicità (che speriamo aumenti), che ha un ufficio commerciale e che paga la Siae (naturalmente in percentuale, come tutti); oppure può imparare a comportarsi come un meritevole servizio alla comunità, che per il proprio sostentamento si rivolge alle istituzioni (ci sono in giro un sacco di ladroni che mungono le istituzioni per i propri interessi, quindi farsi finanziare con denaro pubblico dovrebbe essere considerato come una giusta riappropriazione) e che può quindi rivendicare una sua totale autonomia di giudizio, lo status di “servizio pubblico no-profit” e quindi l’esenzione dalla Siae. Lo so benissimo che la prima ipotesi sembra fattibile mentre la seconda pare assurda e lontana. Ma senza la seconda, la prima da sola, è dimostrato, può un po’ poco; e poi – almeno qui – se le cose non sono difficili (ma attraenti) non ci piacciono.
A chi vanno i diritti d’autore?
Una canzone, oggetto sonoro apparentemente semplice (parole e musica), in realtà spesso nasconde una complessa gerarchia di soggetti che incassano dall’utilizzo del brano (vendita, passaggi radio-televisivi, cinema, internet, etc.). La questione è poi complicata dal fatto che la Siae non usa un sistema di percentuale normale, bensì una divisione in ventiquattresimi (un suicidio: c’ho messo anni ad imparare a fare i conti). Del 100% (24/24esimi) costituito da una canzone, gli autori e l’editore di solito fanno al 50%; questa ripartizione è già ingiusta, considerato che l’autore lavora, mentre nel 99.999 per cento dei casi l’editore (una figura inutile, in via di estinzione come lo Gnucco Zebrato) sta a casa a riposare e incassa (e invito gli editori in disaccordo a smentirmi); perché i musicisti non diventano anche editori? Perché costa molto ed è burocraticamente complicatissimo; tutti i grossi nomi ovviamente lo sono, ed da qualche tempo anche alcuni più piccoli. Il 50% che di solito va agli autori (e cioè 12/24esimi) va poi diviso tra chi ha fatto la musica e chi il testo. Ci sono infinite possibili variazioni: gli U2, fin dall’inizio, firmano tutti i pezzi al 25% come scelta. Per contro ci sono gruppi che, alla fine del disco, discutono molto animatamente su quale percentuale della musica sia stata scritta da chi (“Quel riff è mio, ed è quello che fa il pezzo”; citazione autentica). La Siae incassa a nome e per conto di tutti quanti, trattenendo una percentuale che sta tra il 5 e il 10% su questo traffico.