L’ecologia è uno di quei campi in cui è facilissimo predicare bene e razzolare male; tipico è l’esempio di quello che va in macchina, a 200 metri da casa, a comprare il detersivo ecologico; o di persone molto naturiste con in casa il riscaldamento a temperature tropicali, con conseguente inquinamento furioso, ecc. Ma c’è un livello più profondo e intenso di coscienza ecologica, legata anche all’idea di sviluppo sostenibile e globalizzazione, che a pensarci ti dà le vertigini. Provare è semplice: cercate di tracciare, per ognuna delle cose che usate, i vari passaggi fisici, geografici e socio-economici che le hanno portate a voi utenti finali (o quasi; perché dopo c’è la discarica).
Partiamo da cose semplici: in questo istante ho addosso una felpa fatta in Indonesia e sotto una maglietta made in India (importata da una grande catena); i miei pantaloni sono turchi (ma non il brand) e le scarpe thailandesi, ma certamente arrivate in Italia da altrove. Delle calze non so dire, ma a naso le scarpe sono state solo assemblate in Thailandia, e il materiale della felpa, molto high tech, non è certamente indonesiano. Il computer su cui scrivo poi è davvero multi-etnico: è fatto in Irlanda utilizzando parti costruite in mezzo mondo, e progettate nell’altro mezzo. Anche la tazza del mio caffè è cinese, ma non il cucchiaino e certamente non il caffè, “miscela di varietà di diversa provenienza”. Lo zucchero? Di canna, colombiano.
Quello del cibo è un fronte assolutamente folle: il formaggio sarà pure svizzero, ma la confezione (di plastica non degradabile) è prodotta in Polonia e stampata in Romania. La pasta? Rigorosamente italiana, ma sia le materie prime che la busta vengono da altrove (Russia e Ungheria). I nostri stomaci poi sono teatro di convivenze impensabili: Chili messicano a fianco di Salsa di Soia coreana, Merluzzi norvegesi e Mandorle portoghesi che dividono il colon con Cozze salentine, Gomasio, Wasabi in tubo e Surimi neozelandese (ma assemblato con scarti giapponesi, samoani, srilankesi, danesi e dello Zimbabwe). Ognuno di questi singoli prodotti arriva a noi attraverso mille passaggi, semilavorazioni, navi da cargo, addetti di nazionalità lontanissime, fatture in lingue incomprensibili: tutto questo solo per far arrivare la purea di tonno al mango su uno scaffale della Coop, che così uno stronzo come me può assaggiarla e decidere che non gli piace.
Se poi si esaminano prodotti più complessi la cosa diventa parossistica: leggevo l’altro giorno che ci sono automobili made in Usa di cui solo l’1% è effettivamente lo è, e sicuramente anche qui da noi funziona allo stesso modo: dai fanali ai tappetini, passando per il filtro dell’aria, quanti mondi diversi sono necessari affinché qualcuno possa “cogliere al volo l’offerta a 8.999 euro”?
C’è poi l’aspetto del futuro che pure è agghiacciante. Per ogni hamburger venduto al mondo c’è una scatola di polistirolo (fatta su Marte con materiali di Alpha Centauri) che è stata prodotta per contenerlo. Te la danno, tu la apri, levi il panino e la butti: totale di uso, meno di un minuto. Ma la vita di quella singola scatola, prodotta solo per te, continuerà ancora per centinaia di anni, chissà dove, a perenne memoria di quel pasto consumato quel giorno a quell’ora proprio da te. E questo vale per tutto, dalle bustine dei cracker ai coprilama dei rasoi usa e getta (la cui intera filiera produttiva serve solo a farmelo buttare via, nel gorgo eterno e incommensurabile della discarica), fino alle confezioni in cui ho comperato i miei vestiti, gli imballi in cui hanno viaggiato (di cartone spagnolo, su bancali made in Bosnia), lo scarico dei camion, le cicche dell’autista… Il pianeta va a puttane: come meravigliarsi? Sarebbe incredibile se non ci andasse, e mi sembra miracoloso che siamo ancora qui a parlarne, invece di essere morti affogati nei tubetti di dentifricio vuoti (decine di miliardi l’anno nel mondo) che comunque sopravviveranno molto più a lungo di tutti noi.