La tortura fa orrore a tutti, ma incuriosisce il grande pubblico. Qualcuno poi proprio la desidera.
Tale e tanta è l’attrazione dei turisti per gli strumenti di tortura che ogni città europea che si rispetti ha il suo bel museo dedicato, da Amsterdam a Londra, fino a Matera. Insomma la tortura piace, attira e suscita curiosità. Non sorprende, trattandosi di una pratica che nel corso dei secoli si è andata raffinando fino a raggiungere vette sublimi (o abiette, a scelta). Già, perché in teoria saremmo tutti capaci di fare del male a qualcuno, ma è solo attraverso l’impiego di strumenti adeguati che la sofferenza si moltiplica fino a raggiungere gradi (e zone del corpo) impensabili; soltanto in mani sapienti l’amministrazione del dolore raggiunge davvero livelli altissimi e quindi lo scopo. Oggi sappiamo che fortunatamente la tortura è fuori dalle procedure legali dei paesi civili (inclusi finalmente anche gli Stati Uniti) ma non è affatto sparita dalla fantasia occidentale, specialmente quella legata alla sessualità.
In realtà la tortura ha sempre avuto un potente elemento sessuale, e per verificarlo basta visitare uno di questi musei e osservare i disegni d’epoca: la vittima è quasi sempre seminuda, esposta, legata (in maniere a volte davvero complicate) e spesso di fronte a un pubblico attentissimo. Alcuni dei supplizi sono di natura direttamente sessuale, come l’impalamento o la dilatazione degli orifizi. Ma molti degli altri hanno comunque un posto nell’immaginario dei Sado-Masochisti. E non mi riferisco ai maniaci violenti, bensì a quella notevole quantità di esseri umani che, in una forma o nell’altra, pratica quello che in inglese si chiama Power Exchange, la volontaria cessione del potere di uno dei due partner, e l’assunzione di questo da parte dell’altro. Che è innanzitutto una dinamica psicologica (terreno magari meno ovviamente violento, ma certamente delicato) dove a volte vengono ricreati consensualmente alcuni degli scenari della tortura. A cominciare dal più importante: il dolore (o la costrizione, o magari anche solo un linguaggio più brutale) come mezzo per raggiungere uno scopo. Nella tortura naturalmente si tratta della confessione. Nel BDSM (acronimo di Bondage Domination Sado Masochism) la questione è più complessa e ognuno ha la sua teoria. Diciamo che qui lo scopo del dolore, della costrizione o della deprivazione sensoriale è il raggiungimento di uno stato, che qualcuno chiama perfino resa (surrender), e l’induzione nel Submissive (uomo o donna che sia) di una condizione chiamata Sub Space, dove l’abbandono è totale. Naturalmente, essendo il motto della comunità BDSM Safe, Sane and Consensual (sicuro, sano di mente e consensuale), tutto questo accade in un clima di fiducia totale; ciò nonostante il clima di una session può essere davvero rovente, e non poi così dissimile da quello descritto nei musei della tortura.
Nei quali si vedono perlopiù stampe e riproduzioni di macchinari, a volte ingegnosissimi, per terrorizzare, torturare e spesso uccidere le vittime: impalatoi, rulli infernali per lo smembramento, la Vergine di Norimberga, la Ruota di Caterina o il dilatatore anal-vaginal-orale a vite che vedete nella foto, dotato di perfidi uncini terminali. Strumenti e immagini che però raccontano anche di una sapienza raffinatissima, sia fisica che psicologica (alcuni di questi oggetti sembrano essere più che altro deterrenti), di una conoscenza del corpo umano (e dei suoi punti deboli) davvero sopraffina e di una grande immaginazione nel creare, e utilizzare, uno strumentario adatto alla bisogna. Tutte cose che oggi sopravvivono nel BDSM, e che sono considerate le qualità di un bravo Dominant (uomo o donna che sia). Insomma la tortura spaventa, repelle ma attira: è spaventosa se non consensuale, ma per alcuni spaventosamente attraente se praticata con sensatezza e senza danni fisici. La prima è finalmente finita nei musei, mentre la seconda si diffonde ogni anno di più. Per fortuna tra adulti consenzienti è ancora quasi tutto permesso – perfino in Italia.