Culo libero!

Come sappiamo benissimo la musica è molto più che semplice intrattenimento, e se guardiamo alla storia passata è evidente il suo contributo all’evoluzione della società – quantomeno a quella culturale. Già lo Swing e poi il Rock’n’roll contenevano ingredienti che suggerivano un tragitto di liberazione, innanzitutto del corpo ma anche della mente. Anzi, secondo George Clinton è il contrario: Free your mind and your ass will follow. Il concetto di liberazione è stato declinato in mille modi, ma il corpo resta un ingrediente centrale della vicenda, dalla minigonna al ballo, dall’amore libero degli hippy fino al Berghain, club berlinese dove sesso e techno erano anche ingredienti di liberazione. Quando arriva il Rock’n’roll il mondo è profondamente sessuofobo, la morale vigente è quella religiosa e il corpo un oggetto problematico, in particolare quello femminile. L’argomento sollevato da chi voleva proibirlo non aveva niente a che vedere coi contenuti. Quel ritmo incalzante e suggestivo suggeriva ai giovani una maggiore disinvoltura, la ricerca di sensazioni piacevoli, mentali e fisiche, e forse perfino la promiscuità. Però se una minoranza bacchettona reagiva con orrore, la maggioranza della società aveva un atteggiamento diverso, di curiosità (specialmente da parte dei maschi adulti, invidiosi della disinvoltura dei giovani) ma anche di approvazione: non è un caso che gli anni ’70 abbiano visto esplodere un’ondata di femminismo dalla quale grazie al cielo non siamo più tornati indietro. Non perché la musica o le culture Pop degli anni ’60 contenessero messaggi esplicitamente femministi ma il vento di liberazione, di evoluzione e cambiamento espresso dalla musica Pop ha contribuito a rendere possibili molte delle liberazioni successive. Se la cultura Pop è stata un veicolo essenziale per rivendicare l’orgoglio Afroamericano, lo stesso si può dire per i movimenti LGBTQ+.

Questa liberazione è stata lenta, graduale e tortuosa. I giovani degli anni ’60 praticavano il sesso come strumento di indagine, conoscenza e piacere oltre che di amore e riproduzione. Anche grazie alla pillola, che consente alle donne la stessa disinvoltura sessuale dei maschi, si inizia a sperimentare: l’amore di gruppo, la coppia aperta, il poliamore, la costruzione di famiglie non tradizionali. Idee e pratiche che si diffondono innanzitutto tra i giovani (non tutti, una sparuta minoranza) e che lentamente penetrano il resto della società. Se si guarda la televisione italiana il cambiamento è evidente: il passaggio dalle calze coprenti delle gemelle Kessler all’ombelico esibito dalla Carrà non è soltanto dovuto all’evoluzione naturale, ma ha tra le cause principali proprio la ventata di liberazioni degli anni ’60 che arriva con le culture giovanili. Il corpo è sempre al centro della scena. Nella moda esistevano capi la cui funzione era duplice, stile e messaggio: i jeans, la minigonna e perfino il Bikini raccontavano qualcosa di chi li indossava. Il cinema di quegli anni restituisce un’atmosfera di liberazione anche sessuale non limitata ai giovani. Da Zabriskie Point (1970) a Woodstock (con gli hippy nudi che ballano), da Oh Calcutta! (1969, il primo controverso musical con nudità integrale) fino al porno: quando nel ’72 esce nelle sale generaliste Gola Profonda, film esplicitamente pornografico, il messaggio è (o vorrebbe essere) proprio uno di liberazione. Curiosamente esiste una sensibilità diversa tra l’Europa e gli USA. Mentre da noi progressivamente la pressione si allenta, i confini si dilatano e un certo grado di nudità (soprattutto femminile) viene tollerato anche sulla stampa e in Tv, in America resta in vigore l’idea che a casa propria (o in luoghi dedicati) si possa fare tutto ma che in pubblico (e quindi anche negli spettacoli) i limiti siano assai rigidi. Quindi se in Europa il meccanismo di proibizione dei film sotto certe età diventa più flessibile (specie al nord), negli USA resta ancora rigido e assai temuto: ogni nudità è vietata ai minori, e se si tratta di nudi frontali è inevitabile il rating X che condanna i film a una distribuzione di nicchia.

Avanti veloce al terzo millennio, il mondo si globalizza e arrivano i social network dove valgono ovunque le stesse regole. Per massimizzare i profitti quasi tutti hanno un’età minima di accesso piuttosto bassa, su Facebook sono 13 anni. Il risultato è paradossale: si possono pubblicare esclusivamente contenuti adatti a un tredicenne statunitense. Quindi indietro tutta agli anni ’50, niente hippy nudi, copertine di dischi ardite, locandine osé d’epoca e perfino allattamenti di neonati. Con un’eccezione che mi fa morire dal ridere: posso pubblicare foto di tette nude immense, puppe artificiali di proporzioni inaudite e dimensioni incommensurabili purché apponga una stellina sul capezzolo. In omaggio a un senso del pudore non più comune ma avanzo di una sensibilità puritana che abita ancora nel secolo scorso, o forse nel precedente.

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