Dance

M’ero ripromesso di evitare di scrivere di musica, in questa pagina. Fattostà che la musica fa delle cose eccezionali, e mi pare utile parlarne. In realtà non è tanto la musica a fare delle cose curiose bensì il mondo, che stupito e spiazzato dalle strategie adottate dalla musica per evolversi, reagisce rifugiandosi in categorie già note, che magari danno l’illusione di ordinare la realtà, ma certamente non aiutano a capire che succede (in generale, e in particolare) alla musica.
Il caso più strepitoso riguarda la Dance, un genere di cui molti parlano e di cui pochi però sembrano capire la vera natura. Quale Dance, direte voi? Stiamo parlando degli Eiffel 65 o di Goldie? Dici la Nu Batucada o la Trance? E’ Maranza o Deep? Gigi d’Agostino featuring Albertino o Saint Germain?

La primissima cosa da capire sulla Dance (dal Valzer alla Gabber) è che c’è una differenza fondamentale col resto della musica. La Dance è una “musica d’uso”. La musica d’uso si chiama così perché serve a fare una cosa: ballare. Eccone alcuni altri esempi, tra i molti: i canti di lavoro (che danno ritmo ai movimenti), la musica religiosa (che serve a pregare), i jingles pubblicitari (che servono a vendere più automobili). Viceversa una sinfonia di Beethoven o una canzone di Badly Drown Boy non servono a qualcosa, non hanno una funzione, se non il puro atto creativo di scriverle e l’esperienza emotiva di ascoltarle.
Per valutare la musica d’uso bisogna innanzitutto verificarne l’efficacia nella sua funzione: come faccio a giudicare una messa cantata se non conosco la messa? Posso dire che è una bella musica, ma funzionerà come messa? Posso scrivere il più bel canto dei battipali (quelli che a Venezia costruivano le fondamenta delle case: piantavano dei pali sul fondo della laguna, ritmando i colpi con dei canti), ma se non funziona per battere i pali è un fallimento. Idem con la Dance: per capirla devi ascoltarla nel contesto adatto e magari sperimentarne l’uso su te stesso. Se ascolti una cerimonia buddista ma non colleghi quello che senti a quello che succede, è escluso che tu possa valutare cosa stai ascoltando. Lo stesso discorso vale per la Dance (dal Foxtrot al Garage): ascoltarla nella penombra della tua stanza aspettandosi la stessa esperienza emotiva di una canzone di PJ Harvey è assurdo, tanto quanto ascoltare Bocelli calati, in un rave illegale da 8000 persone – o andare al cinema a vedere le previsioni del tempo.

Non c’e’ spazio qui per raccontare gli ultimi 25 anni di Dance (ma potreste leggere l’ottimo “Disco Inferno” di Antonelli e De Luca), fattostà che fino a qualche anno fa c’era una forte avversione al suono della Dance da parte degli amanti della Musica, spesso giustificata. La musica per ballare (quella di derivazione “Disco”, per capirci) s’era chiusa in un angolino: poche soluzioni nuove, zero inventiva e maranza abbestia. Fattostà che, alla faccia dei generi, negli ultimi dieci anni la Dance (nel senso più ampio del termine) ha fatto una mossa a sorpresa che ha spiazzato un mucchio di gente. Grazie alla tecnologia (che è stata applicata alla musica proprio dopo l’avvento della Disco, nella seconda metà degli anni ’70) s’è definitivamente disfatta della grande industria, trasformandosi in micro-imprenditoria diffusa e liberando la creatività. Grazie alla rinnovata cultura del corpo s’è riconquistata spazi fisici e mentali (per esempio la cultura Rave) e grazie a questi due fattori ha fatto la capriola finale: la chiusura del gap tra uso ed emozione, la fine della Dance (quasi solo) come musica dei battipali. Ecco com’è che oggi sulla stessa cassa in quattro viaggiano Gigi d’Agostino, la vera messa cantata, ma pure Aphex Twin, Photek o i Sigma Tibet, che invece regalano emozioni diverse ad ogni ascolto, e la cui musica si rivolge insieme alle gambe e alla testa. Ed ecco come mai qualcuno di voi è comprensibilmente un po’ spaesato. Se ci pensate però, è giusto: questa è la Musica, uno dei pochi mondi dove ancora tutto è possibile.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *