Dare e avere

Quando sono entrato nel mondo del “lavoro musicale” il mercato aveva una configurazione completamente diversa: la musica circolava in CD, LP e cassette, Internet non c’era, i masterizzatori iniziavano a diffondersi e la pirateria era fatta dalle mafie che vendevano copie illegali di musica e film nei mercati. Le case discografiche regnavano incontrastate, tant’è che potevano permettersi di spendere in campagne contro la “pirateria domestica” – le cassette registrate per gli amici – che a detta loro stava “uccidendo la musica” (il tempo è galantuomo, adesso si capisce quanto fossero stolte queste affermazioni). I profitti erano buoni, e perfino chi vendeva poco riusciva a mettere insieme un reddito – spesso integrandolo con concerti, passaggi radiotelevisivi, ecc.

Poi è successo il finimondo: la rete, Napster, Bittorrent, iTunes – fino ai nuovi servizi di musica in streaming. Sappiamo tutti che in questa rivoluzione, anche economica, qualcuno ci ha guadagnato (il pubblico, i provider, i venditori di PC, la Apple) e altri ci hanno rimesso (le discografiche, gli artisti, i distributori, i negozianti – insomma l’industria). Allo stesso tempo si è diffusa una nuova idea, che corrisponderebbe a una nuova configurazione economica del mercato musicale. Semplificando molto: la musica è gratis, o costa comunque pochissimo (i servizi di streaming hanno tariffe flat), e i musicisti guadagnano facendo altro: concerti, dj set, merchandising, talent show, ecc. Poi naturalmente Adele vende un botto su iTunes (che ha una politica spregevole), ma per le band meno pop (quelle di cui parliamo nelle altre pagine di Rumore), gran parte delle quali “lavora per vivere” (a differenza di Madonna) l’economia si è notevolmente ristretta, sulla base del principio “musica gratis, reddito dai concerti e da altro”. Sorvolo su qualsiasi considerazione sul fatto che fare i dischi è un lavoro di per sé che andrebbe retribuito, o che fare i tour è molto divertente ma anche un massacro, specie per le band indie che fanno molte date a pochi soldi. Voglio seguire questa logica, perché il punto mi pare un altro.

Essere fan di un artista ha sempre significato qualcosa di bi-direzionale: tu riesci a dire quello che vorrei dire ma non so come dirlo, mi apri scenari estetici, poetici e sonori nuovi, sonorizzi la mia esistenza – e io ti mantengo, perfino nel lusso. E’ sempre stato così, nella storia della Popular Music. Il fatto che io abbia contribuito (direttamente, quasi versandogli dei soldi in banca) al saldo del conto corrente di Muddy Waters, Bob Dylan, gli Area e i Modern Lovers non è affatto irrilevante. Sono felicissimo di averlo fatto, anche facendo dei sacrifici: io nei dischi ci spendevo tutta la paghetta, e un pezzo del reddito quando ne ho avuto. Questo però mi ha reso protagonista della storia artistica e personale di questi musicisti, specialmente di quelli meno noti, e particolarmente degli esordienti. Ho un legame molto speciale con chi ha comperato i miei due album – diverso da quello che ho con chi li ha scaricati e a cui magari sono pure piaciuti assai. Ovviamente essere indipendenti aiuta: un conto è mantenere un artista, un altro è finanziare le discografiche.

Non credo che si debba tornare indietro, anzi. Penso però che si debba recuperare quel concetto, e ripensare la relazione che abbiamo con quello che ci piace. Penso che gli artisti debbano muoversi (molti lo stanno già facendo, a volte in maniera assai creativa) per ricreare quel genere di dinamica bilaterale. E il pubblico deve assolutamente ripensare il proprio rapporto con la musica (e chi la fa), che spesso è una parte centrale della vita. Non credo che avere tutti gli mp3 di una band significhi esserne dei fan; forse neanche cantare ai concerti o comprare la maglietta. Bisogna riavvicinarsi a un rapporto più profondo, basato su un’idea che mi pare ovvia: se hai una parte così importante nella mia vita, anche io dovrei (orgogliosamente) averne una altrettanto importante nella tua – non solo in termini sentimentali.

4 thoughts on “Dare e avere

  1. Come non essere d’accordo.
    Per me la musica rappresenta una ragione di vita (non ci vivo con essa, ma ne sono molto appassionato, da sempre).
    Mi rendo conto che ascoltarla con i dischi e con i CD è una cosa, con gli MP3 è un’altra cosa – è più facile, più “portatile”, ma svanisce una certa “magia”, e io non mi ci ritrovo appieno.
    Certo, qualcuno potrebbe dire “Cazzo dici, la musica è musica, è una discriminazione inutile la tua!”.
    E’ questo il punto.
    A parte la profondità di segnale udibile chiaramente tra le due esperienze (musica non compressa e compressa, cioè tra supporto fisico e MP3), l’avere un disco in mano ti rende parte di un microcosmo (neanche tanto “micro”) che equivale al fare parte di quel mondo lì, quello musicale. Idem dicasi se suoni il basso o la batteria.
    Grazie alla mia passione ho conosciuto (e suonato insieme ad) artisti che, 10-20 anni prima, mentre li ascoltavo su disco, neanche mi sognavo di accompagnare musicalmente su un palco: Marvin Rainwater, Ray Campi, Sonny Burgess…Negli anni ’80 e ’90 me li ascoltavo bellamente tramite il giradischi o la piastra a cassette del mio stereo, ero passivo.
    Poi questa “passività” ha innescato l’essere attivi con la musica: suono dal 1991.
    E, come Sergio, ho dato fondo a fondi monetari per portarmi a casa dischi spesso molto diversi tra loro, acquistati in varie parti d’Europa.
    Poi è arrivato Ebay, e la cosa si è fatta più selettiva: cerchi quello, trovi quello. Idem per la ricerca specifica di albums o di singole tracce sulla Rete.
    Alla bancarella invece cerchi quello, ma trovi anche altro, che inaspettatamente ti interessa.
    E ho notato tempo fa che alcuni servizi (iTunes etc…) ti propongono musica sulla base di cosa hai scelto (comprato) o semplicemente consultato, vorrebbero fare la bancarella…
    Ma non riescono: alla bancarella cerchi i Depeche Mode, ma poi ti innamori di, magari, una copertina di Marcella Bella, e compri il disco per quello. Magari lo senti e ti piace anche.
    Ecco una cosa, tra le altre, che i servizi digitali rivolti alla musica non posso dare.

  2. Ho solo un appuntino da fare al buon Frank, che per il resto dice cose assai condivisibili. Lo trovo un po’ nostalgico. Mentre io penso, come ho scritto, che gli artisti debbano escogitare stratagemmi nuovi per recuperare quella relazione diretta, quel meccanismo di interdipendenza tra un musicista e il proprio pubblico che era ben visibile ieri ma non più oggi.

    Sulla bancarella e l’effetto serendipity hai ragione da vendere, anche se questo particolare aspetto è in forte evoluzione: nei social network musicali (e presto lo saranno tutti) spesso si scopre musica in maniera casuale, proprio come fosse lo scaffale accanto nel negozio.

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