La Popular music attuale vive un dilemma. Fino agli anni ’70 era considerata una cosa lieve, leggera, giovanile. Poi sono intervenuti molti fattori. Negli anni ’80 la generazione del dopoguerra ha l’età giusta per consumare di nuovo i prodotti Pop della propria gioventù, che si ricompra in massa su CD. Si inizia anche a guardare all’indietro: nascono quei fenomeni di nostalgia (per gli anni ’50 innanzitutto, pensate a Grease o alla serie Happy Days) che portano a elevare quella musica a Vera Musica. Oggi la musica Pop gode di prestigio accademico, si studia alle università, si organizzano mostre in musei pubblici. Mi pare ottimo. È anche uno dei motivi per i quali ci si arrabbia quando si sente dire: “La cultura non produce PIL”. Frase che rivela una mentalità ancora molto radicata tra i politici italiani. Per molti di loro la cultura si divide ancora in alta e bassa. Quella alta (come la Lirica o certo folclore) va sostenuta perché è quella con cui non si guadagna. Invece il Pop sta benissimo, fa un sacco di soldi, non ha bisogno di tutele o di incentivi.
Se vogliamo trovare il prossimo Pavarotti dobbiamo finanziare scuole, mantenere delle orchestre, fare i concorsi, organizzare dei tour all’estero, a volte anche attraverso l’Istituto Italiano di Cultura. La cui attività principale consiste proprio nel sostenere quella cultura che da sola non ce la farebbe. Pure questo mi pare ottimo. Sempre viva il Saltarello Marsicano, un ballo che racchiude in se tutta l’aspra poesia dell’Abruzzo profondo: mandiamolo in tournée in Australia. Nel Pop invece vige il Darwinismo puro. Poi, dopo molti anni, se qualcuno ha funzionato (o ha guadagnato bene), fa il giro e diventa cultura alta: escono libri, si ristampano dischi, si rivalutano fenomeni a volte marginali al momento della creazione ma oggi visti come fondativi. Un esempio italiano è SXM dei Sangue Misto ma ce ne sono davvero molti, dai Negazione a un mucchio di altri amici. Lo sapevano questi, a vent’anni, mentre facevano le loro cose a budget zero, fotocopiando i flyer, provando in cantina, col furgone senza revisione in giro per l’Europa, che stavano facendo qualcosa che poi sarebbe stata riverita e studiata? E se sì, avrebbero preferito essere trattati come chi suona Rossini o Verdi, con sovvenzioni e opportunità? Non voglio parlare a nome di nessuno quindi parlo per me, ma ho osservato piuttosto bene la musica italiana degli ultimi 40 anni per poter dire alcune cose con ragionevole certezza.
La risposta alla prima domanda è Ni. Per come l’ho vissuta io, la quasi totalità dei partecipanti non aveva questa percezione. Magari capiva di stare facendo una cosa bella, ma era sostanzialmente incosciente. E questo credo sia un ingrediente fondamentale per fare cose importanti. Però poi, per varie ragioni, qualcuno se ne rende conto anche nel mentre. È uno dei motivi di dolore per la sorte di Marco Mathieu dei Negazione, a cui penso spesso e a cui mando un abbraccio. Lui certamente ha avuto questa percezione. In alcuni momenti, in determinate situazioni, all’epoca ce l’ho avuta anche io: quando è esploso l’Hip hop italiano avevo quasi trent’anni, una distanza che mi ha permesso di notare alcuni passaggi, come appunto SXM.
La seconda risposta è So. Non credo che a molti sarebbe piaciuto essere finanziati dal Ministero della Cultura. Non per snobismo: i musicisti italiani underground (Punk, Indie, Hip hop, cantautori meno facili, etc.) hanno sempre avuto una rete di locali, club o centri sociali dove suonare (a volte anche all’estero), e hanno sempre preferito fare da se. Allora, e assai di più oggi che c’è YouTube. Però magari degli incentivi, un po’ di aiuto, una qualche defiscalizzazione aiuterebbero chi fa scelte meno ovvie. Insomma: ora sappiamo per certo che qualcuno dei musicisti che è in stanzetta a suonare, dopodomani sarà oggetto di una mostra al MACRO. Possiamo fare qualcosa? Dovremmo?