Molto si dibatte in Italia sul tema dell’immigrazione. C’è chi propone i respingimenti in mare, chi chiede centri di smistamento degli immigrati nei paesi africani, chi sostiene che invece andrebbero accolti tutti. Alla base del dibattito c’è una distinzione legale, quella tra “profugo richiedente asilo” e “immigrato clandestino”. Mi sembra un tema interessante, che non attiene soltanto al tema dell’accoglienza ma permette di distinguere diverse visioni dell’umanità.
Come ho detto, la legge distingue due generi di immigrato. Da un lato c’è il profugo, quello che scappa da una zona di guerra, da una pulizia etnica o un genocidio. Su queste persone siamo tutti d’accordo: vanno accolte subito, e va loro data l’opportunità di farsi una nuova vita. Mi pare sacrosanto, anche per una ragione non nobile: domani potremmo essere noi a scappare da una guerra civile (la storia insegna che non si può mai dire), e speriamo che qualcuno ci accolga. Dall’altro lato ci sono gli immigrati clandestini, cioè quelli che provengono da paesi magari svantaggiati ma non in guerra. Gente che non è in immediato pericolo di vita, ma magari vive in un posto che non gli offre alcuna opportunità, e decide di venire via per cercarsi un futuro migliore. Sul destino di queste persone le opinioni sono assai diverse, ma con alcuni tratti simili: in Italia siamo già al completo, qui poi fanno i lavavetri ai semafori, quindi tanto vale che se ne stiano a casa, è meglio aiutarli nei loro paesi. Insomma: se sul profugo siamo tutti d’accordo, sul migrante invece no, e perfino i più accoglienti insistono su questa distinzione.
Ovviamente anche io penso che ci sia una differenza. Però penso anche tante altre cose. Penso che l’assenza di un futuro, l’impossibilità di pensare una vita diversa, siano cose tremende. Penso che guardare i tuoi figli e pensare che la tua esistenza infame sarà anche la loro (se vivi in una favela mi pare abbastanza probabile), sia pure agghiacciante. Penso che sognare di superare i propri confini (geografici, culturali, sociali, economici) ma invece essere prigionieri (della povertà, di un paese non libero, di una religione soffocante, di un’economia corrotta) sia inaccettabile. Certamente lo sarebbe per me, che invece sono occidentale, bianco, ho un reddito decoroso, posso andare dove mi pare e starci quanto voglio. Che se cambio paese, come ho appena fatto, mi chiamano expat e non migrant. Quando chiedo la differenza, nessuno sembra essere in grado di spiegarmela.
Una dimostrazione di quello che penso la trovo nel fatto che sia i profughi che gli immigrati clandestini fanno lo stesso viaggio per tentare di arrivare in Europa: “Sono partito dall’Africa sub-sahariana, ho attraversato il deserto (facendo molti chilometri a piedi) e sono arrivato in Libia, dove ho lavorato due anni come manovale per raccogliere i soldi. Poi ho comperato il passaggio verso l’Europa, e ho passato cinque giorni alla deriva prima di essere soccorso.” Queste storie riguardano indifferentemente ambedue le categorie, segno evidente che le motivazioni sono altrettanto urgenti – con le dovute differenze. Chiunque abbia affrontato una prova così inimmaginabile mi sembra degno di tutta la mia ammirazione. Il suo desiderio è di un’intensità che non conosce uguali in nessuno di noi: chi può dire di aver fatto qualcosa di solo remotamente paragonabile? Chi di noi desidera qualcosa tanto intensamente?
Certo, il genocidio è inaccettabile. Però la top ten del disagio mi sembra paradossale. C’è gente che scappa e che va accolta. Innanzitutto quelli che non possono che andarsene, pena la morte o la tortura. Ma subito dopo ci sono gli altri, che non sono meno bisognosi o meritevoli di aiuto. E’ gente che implora disperatamente un futuro, che farebbe qualsiasi cosa (incluso un viaggio epico) pur di migliorare la propria vita, di avere una chance. Come te e me. Ecco: al momento a queste persone stiamo dicendo che no – purtroppo gli è andata male.