Il Pop italiano moderno esplode alla fine degli anni ’50, animato da ragazzi nati durante la guerra o subito dopo; ragazzi che oggi hanno circa 80 anni. Già durante gli anni ’60 lo scenario diventa molto articolato, e oltre agli artisti famosi e televisivi come Celentano o Mina nascono esperienze più underground. La musica diventa più internazionale (i Formula Tre si formano nel ’69, i Delirium l’anno dopo), più colta (i dischi cardine di De André e De Gregori escono in questi anni), più ardita e complessa (Area, Banco e PFM compaiono a cavallo tra ’60 e ’70) e talvolta politica (l’autore di Dio è Morto, interpretata dai Nomadi nel ’67, è Francesco Guccini; il brano fu oggetto di molte polemiche). Da quegli anni in poi la scena Pop italiana si è evoluta in molte direzioni: si va dai cantautori al Prog (la cui scena nostrana è oggi oggetto di culto tra gli intenditori di mezzo mondo), fino al Punk, la cui versione italiana, specialmente quella degli anni ’80, viene celebrata come unica: in certi posti nel mondo basta dire Negazione per farsi degli amici. E poi la scena New Wave, quella Dance, House & Techno (il cui flavor italiano è assai gradito ovunque), quella più sperimentale, l’Hip hop, la Trap: la lista è infinita. Tutta questa musica ovviamente ha avuto bisogno di una scena di supporto: roadies, fonici, tecnici luci, organizzatori, piccoli e grandi club, service, etichette discografiche di tutte le dimensioni, stampa, radio, insomma tutti gli snodi essenziali affinché la musica possa risuonare. Stiamo parlando di centinaia di migliaia di persone che negli ultimi sessant’anni hanno reso possibile tutto questo. A queste categorie ne vanno aggiunte altre due fondamentali: il pubblico, senza il quale niente esisterebbe, e i musicisti, gli autori e le band che non “ce l’hanno fatta”: magari non stanno nelle discografie ma hanno creato il terreno, l’humus, la scena – un ruolo essenziale.
In Italia questo grande fermento non è mai stato valorizzato, stimolato o agevolato dalla politica. Certo, si celebrano i grandi come Morricone, si santificano i morti come Tenco (che non può commentare) ma non si fa niente di organico e duraturo per favorire la nascita dei prossimi Tenchi, degli Area del 20XX o del Manuel Agnelli prossimo venturo. L’intera questione è abbandonata al darwinismo commerciale: se vendi esisti, altrimenti ciccia. Un metodo che a volte funziona ma spesso invece no, e che evidenzia un problema sistemico: mentre il balletto e la lirica sono tutelati in quanto cultura, un DJ invece è show business. Altra categoria ma, inspiegabilmente, stesso ministero “preposto alla tutela della cultura e dello spettacolo e alla conservazione del patrimonio artistico, culturale e del paesaggio”. Io amo molto sia gli alberi che gli Etruschi ma voglio più bene al diciottenne DJ Struffolo, che mixa arditamente sua nonna, la Techno in 6/8 e i piccioni campionati. Purtroppo però Struffolo non ha un posto dove provare, si è dovuto comprare l’equipaggiamento senza alcuna agevolazione e non sa dove esibirsi: il mercato non sente tanto il bisogno della pur geniale Techno in 6/8, e dove sta lui non esiste alcuna struttura pubblica. Perché Struffolo se la gioca col Colosseo, con Ennio, con l’Abete dell’Abate e il Dolmen Mazziforme Irpino.
Un paio di anni fa c’era stata una campagna sacrosanta: applicare la legge Bacchelli (“fondo a favore di cittadini illustri che versino in stato di necessità”) a Dome la Muerte, chitarrista prima dei CCM e poi dei Not Moving, eccellenze italiane che ci invidiano nel mondo come il Pecorino Pecoreccio. Solo che chi si occupa di cultura in Italia ha grande dimestichezza sia col Pecorino che col Pecoreccio ma non coi Cheetah Chrome Motherfuckers. Purtroppo non finisce qui: come dicevo all’inizio arrivano gli anziani, che oggi saranno Prog e domani Hip hop – tutti in fila col cappello in mano dietro alla tutela dell’antica Ciaramella Nana del Putrengo.