Come forse avete notato, ho un certo gusto per il paradosso. Mi piace, a volte mi fa ridere e spesso è un congegno che svela dei meccanismi non immediatamente visibili. Uno dei miei paradossi preferiti mi torna utile volendo turbare quelle persone che si immaginano corrette, curiose e di larghe vedute. Sostengo, con più o meno disinvoltura a seconda delle occasioni, che si possa giudicare qualcosa senza averla vista, letta, assaggiata o sentita. Segue panico: “Ma no, non si può! Hai dei pregiudizi! Se non hai visto/sentito/letto/mangiato X non hai elementi per giudicare! Come si fa?” Curioso. Più ci penso e più la mia mi pare una posizione sensata. Non solo ma lo facciamo tutti, inclusi i miei amici precisini e corretti. Che, per esempio, non andrebbero mai a vedere Mission Impossible 86, mentre seguono con interesse la cinematografia del Burkina Faso. Un film si sceglie sempre. Su che base? Sulla base di un pre-giudizio fatto di parametri assolutamente soggettivi ma per noi essenziali: i film precedenti del/la regista o interprete, il trailer, recensioni e pareri, il genere, un aspetto politico o sociale della storia, e perfino il paese di provenienza o la locandina. Elementi che ci fanno pre-giudicare positivamente o meno quel film. Poi, una volta visto, si può dire se ha soddisfatto le nostre aspettative, se ci pare di aver impiegato bene quel tempo e quei soldi.
Nella musica funziona esattamente allo stesso modo. Ognuno di noi possiede una piccola (o talvolta immensa) “scultura emotiva” che sono i propri gusti. Una scultura geologica, formata in anni, decenni di ascolti belli e brutti. Magari ti è piaciuto l’album degli Enea su Twitter (gruppo giapponese che copia Mike Patton, secondo Fabio De Luca), così qualcuno ti ha consigliato i primi singoli degli Unbelievable Cazzons, che però non facevano per te. Tutte queste esperienze ti hanno portato a escludere che l’ultimo disco di Andrea Bocelli possa rientrare nei tuoi gusti, anche solo lontanamente. Devi ascoltarlo per saperlo? Naturalmente no, grazie al cielo (e al pre-giudizio). Chiunque di noi potrebbe ragionevolmente sostenere che sia terribile, sempre sottintendendo (come si fa con le opinioni) “secondo me”. A me l’ultimo album di Andrea Bocelli farebbe orrore, come d’altronde il precedente, e quello prima (che ovviamente non conosco). Se avessi dovuto pure ascoltarmeli mi avrebbero fatto male alla salute, oltre che soltanto orrore. Ognuno di noi si difende, o qualcuno ha ascoltato l’opera omnia di Giusy Ferreri per poter dire che è inascoltabile? Basta la favela.
In una società oramai completamente mediatizzata, c’è un ulteriore livello che si aggiunge ai precedenti: il livello Fedez. Sono italiano, mi piace il rap, non lo seguo più così assiduamente ma sono curioso delle cose nuove che escono, anche per tenere il polso della scena. Sento pure la Trap, con le sue metriche senza rime e le basi velenose di Charlie Charles. Non tutto mi piace, ma non mi pare di aver sprecato il mio tempo mentre sto su YouTube a cercare questa musica. Fedez invece lo vedo nella colonna di destra sui siti di Repubblica, del Corriere o della Stampa (quella che io chiamo la colonna infame) che si fa i selfie, devasta dei supermercati, dice sciocchezze o talvolta ovvietà, da solo o in combination con la moglie e il pupo. Ecco: questo già mi basta e avanza, non ho bisogno di sentire i suoi dischi, vedere i suoi video, guardare il suo Instagram. Dice: “E se poi fa un disco meraviglioso, imperdibile, epocale?” Ecco: in quel caso mi sarò perso qualcosa. Ma in tutti gli altri ho ragione io.
Insomma: il pre-giudizio è quello che ci salva dai libri di Paolo Crepet, dai film di Natale (o di Alba Rohrwacher, se preferite), dalla discografia de Il Volo. Poi certo, è importante coltivare sempre la propria curiosità, andare oltre i gusti personali per allargarli, sfidare i nostri pregiudizi sottoponendoci a esperienze nuove, per crescere e migliorare. Esperienze nuove però, mica Fedez.