Esercitarsi in pubblico

C’erano una volta, e grazie al cielo ci sono ancora, i “musicisti”. Ci metto le virgolette perché mi riferisco a coloro che rendono onore etimologico a questo termine: persone capaci di prendere uno strumento musicale e farlo suonare – azzittendoci, meravigliandoci e a volte commuovendoci. Che si tratti di musicisti di derivazione popolare o colta, che suonino uno strumento monodico o polifonico, che lo facciano da soli o in gruppo, certi tratti essenziali sono gli stessi. Spesso si inizia da piccoli, e nei primi mesi (a volte anni) ci si fanno le dita, si acquista familiarità con le possibilità dello strumento, si imparano posizioni, diteggiature e modalità di esecuzione. Poi, una volta superata questa fase, ci si misura col repertorio di quello strumento. Questo vale per il Clavicembalo, ma anche per la Chitarra elettrica e il Rap: conoscere il lessico di Bach, Hendrix o Method Man è una condizione essenziale per un musicista. Lo sviluppo di un proprio stile personale passa quasi sempre attraverso la metabolizzazione di quelli degli altri, soprattutto del passato, specie quelli dei fuoriclasse dello strumento. Quindi all’inizio si copia, si rifà e solo dopo un certo tempo, a volte, emerge uno stile personale. Che in rarissimi casi è effettivamente originale, ma più spesso è una combinazione di elementi assorbiti qua e là. Jon Hassell per esempio (uno dei miei musicisti preferiti) suonerebbe la tromba, se non fosse che da un lato ha sviluppato un suono unico, riconoscibilissimo e molto lontano da quello che di solito associamo a quello strumento, e dall’altro ha assorbito stili e modalità della musica classica indiana (in particolare quelle vocali del nord e quello del flauto Bansur della tradizione Karnatica).

Questa progressione di apprendimento, sviluppo e sintesi stilistica funziona esattamente allo stesso modo anche nella musica elettronica di matrice popular, solo che per pigrizia (se non peggio) si tende a assumere il contrario: “Oggi, col computer, sono tutti in grado di fare musica. Basta pigiare dei bottoni, scegliere dei colori e poi fa tutto il PC. Il risultato è noiosissimo, omologato e prevedibile: vuoi mettere quando si passavano anni e anni a fare scale?” Questo è un luogo comune assai pericoloso, per diversi motivi. Non solo è sbagliato, ma è passatista – e quando qualche mia opinione suona così mi insospettisco sempre un pochino. Tra l’altro, suggerire l’idea che il futuro sarà peggiore del passato non mi pare esattamente il messaggio giusto da dare ai giovani, molti dei quali fanno musica col PC.

La vera, grande differenza tra il passato è il presente non mi pare essere l’iter per diventare buoni musicisti, ma semmai il luogo in cui questo avviene. Non più nel privato della stanzetta, dove molti di noi hanno passato anni e anni a rifare, copiare e esercitarsi (spesso facendo cagare all’inizio e poi migliorando), bensì in pubblico – ma un pubblico diverso da quello “analogico” di una volta. Oggi infatti si ha una percezione molto più sfumata del confine tra pubblico e privato, e non solo nella musica: il fenomeno delle adolescenti che si postano seminude su Myspace la dice lunga su questo tema. Quindi tutta quella musica auto-simile che si sente in rete non è altro che la versione digitale della patetica, e molto poco verosimile, imitazione di Little Wing di Hendrix con cui ho ammorbato mia madre per anni. Poi, per fortuna (e tenacia), le cose sono migliorate e qualche anno dopo ho pubblicato il mio primo album. Oggi anche questo passaggio è più sfumato, e è tecnicamente possibile “pubblicare” la propria musica (ad esempio su jamendo.com) anche per un esordiente. Meglio di una volta? Peggio? Di sicuro profondamente diverso da prima.

Quello che resta uguale però è il percorso di cui sopra. Il digitale renderà pure tutto più veloce e istantaneo, ma la mancanza di quel tragitto è difficile da mascherare, perché viene immediatamente rilevata da quei magnifici detector posseduti da ogni ascoltatore esperto: orecchie ben addestrate.

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