Una delle pochissime battaglie sulla quale l’intero mondo occidentale concorda è certamente quella per la liberazione del Tibet: dai Beastie Boys (organizzatori nel ’95 del Tibetan Freedom Concert) a Letizia Moratti (“Il Dalai Lama è un vero simbolo di pace”) siamo tutti d’accordo. Il Dalai Lama ci piace, il Tibet ci pare un paradiso, siamo indignati col governo cinese per la repressione violenta della cultura tibetana e desideriamo l’autodeterminazione di quel popolo, a partire dalla sua autonomia: dal 1951 il Tibet è stato annesso alla Cina, e da allora ci sono stati oltre un milione di morti e innumerevoli arresti. In cima a tutto questo ho anche delle motivazioni personali: ci sono stato, e ho avuto modo di apprezzare l’insospettabile simpatia dei tibetani, montanari buddisti pratici e per niente pomposi (come sono invece molti dei buddisti nostrani). Detto questo, vale la pena di fare un paio di considerazioni aggiuntive, giusto per capire meglio la questione.
Prima del 1951 in Tibet c’era la teocrazia più assoluta che si possa immaginare. I monaci (il cui capo era appunto il Dalai Lama) amministravano lo stato, ma anche la legge e la medicina. La gran parte dei tibetani erano servi, che “avevano il privilegio” di coltivare la terra, quasi tutta di proprietà dei monaci. Le varie comunità, tutte facenti capo ai ricchi e potenti monasteri, erano interamente assoggettate alla legge divina, amministrata dai monaci con l’ausilio di un piccolo ma cazzutissimo esercito che, nel corso dei secoli, ha sedato con violenza molte rivolte. L’intera vita dei tibetani ruotava intorno alla religione, e era abitudine (qualcuno dice anche obbligo) delle famiglie di spedire almeno un figlio in monastero. D’altronde anche la vita culturale era gestita dai monaci, e l’unica letteratura tibetana che la storia ci ha consegnato è composta di libri sacri. Il Dalai Lama (che ci pare così gentile e dimesso) abitava a Lhasa, in un palazzo strabiliante di oltre mille stanze, il Potala. Insomma, quando i cinesi hanno invaso il Tibet, lì c’era una specie di feudalesimo religioso. Che sarà anche stato apparentemente idilliaco, ma sotto il quale davvero non vorrei mai vivere: la dittatura di Dio è la sorte peggiore che possa toccare a un popolo.
Ma ho un altro motivo di dissenso, più sottile ma non meno importante. In occidente abbiamo quest’idea del Tibet come di un paese eterno e immutabile, popolato da pastori montanari felici e mistici, sorridenti nei loro abiti tradizionali. Un’impressione alimentata dal vestiario del Dalai Lama e dei monaci al suo seguito. Immaginiamo la società tibetana come una sorta di medioevo presente, temporaneamente schiacciato dall’occupazione cinese. Un’idea sbagliata e stupida: è un po’ come farsi un’immagine della società italiana guardando il Papa (e i suoi esilaranti copricapo) con la sua corte di chierici. Il Tibet, grazie a Dio (magari perfino Buddha) è nel 2007, quindi dobbiamo immaginare che esistano punk tibetani, biker di Lhasa e montanari rocchettari, atei, omosessuali e sodomiti – i cui diritti mi sono cari quanto quelli del Dalai Lama.
Per capirci: voglio il Tibet libero? Certamente, se lo desidera. Lo voglio democratico? Non necessariamente: se alla maggioranza dei tibetani piace vivere nella dittatura teocratica (dove il capo del governo non si sceglie ma si reincarna) devono poterlo fare. Sono a fianco del Dalai Lama nella sua battaglia? Solo a certe condizioni: perché sono grato ai patrioti risorgimentali per aver liberato l’Italia dal ripugnante giogo della dittatura papale (ma comunque soffro orribilmente nel dover convivere con persone come la senatrice Paola Binetti). Quindi se il Dalai Lama vuole il mio appoggio deve essere più esplicito: i tibetani potranno praticare il satanismo? E lo speed metal? Potranno amare persone dello stesso sesso? E saranno autorizzati a dire che il buddismo gli sembra una fregatura, o che il cappello del Dalai Lama fa ridere i polli?
Dici bene Sergio , prima dell’ arrivo dei Cinesi il Tibet era una teocrazia feudale basata su di una classe di monaci che comandavano con violenza su sudditi, quindi non esattamente una terra paradisiaca.
Sul fatto che il Dalai Lama voglia concedere la libertà ai sodomiti, agli Atei e ai suonatori di speed metal non sareì così sicuro, ha già fatto interventi non proprio al livello papalino ma siamo quasi lì–
Il discorso è molto complesso.
Saluti