Furbizia molesta

A Roma per descrivere i furbi si usa un’espressione assai azzeccata, anche se un po’ forte: paraculi. Questo termine, solo apparentemente dispregiativo, descrive benissimo l’ambiguità che c’è intorno a questa condizione umana (appunto la furbizia, o paraculaggine). Paraculo infatti parrebbe derivare da “pararsi il culo”, altra pittoresca espressione capitolina che significa proteggersi, mettersi al sicuro (mettendo in salvo il bene più prezioso – curiosamente di tutti quanti proprio il culo). Quindi il paraculo è contemporaneamente colui che si protegge (“Pe’ sicurezza me so’ parato er culo”) e colui che cerca di saltare la fila (“Ao, anvedi ‘sto paraculo”). L’espressione “Quello è propio un paraculo” è insieme positiva e negativa: spesso lo si è detto di politici che poi si votavano proprio per questa ragione. Se ci pensate bene (comunque la pensiate) il nostro attuale premier è stato eletto proprio in virtù della sua furbizia. Chi l’ha votato pensa che sarà furbo anche per gli italiani; chi invece è contro pensa che continuerà a fare quello che ha sempre fatto: essere furbo per il suo proprio tornaconto.

La furbizia quindi è insieme una dote e un difetto: dipende dal senso etico del furbo in questione. Se uno usa la propria furbizia per migliorare la propria vita è certamente una gran cosa; se lo fà a spese degli altri allora no. Confina con la scaltrezza da una parte e con la stronzaggine pura dall’altra (quella furberia ottusa perfettamente rappresentata dal cazzone che salta la fila alle poste).

Nei bambini la furberia è solitamente apprezzata, perlopiù dai genitori stessi, che la interpretano come un segnale che il bambino si farà strada nella vita. Solo quando si accorgono che a nove anni tocca il culo alla maestra, fuma e ricatta la nonna capiscono che questa qualità può anche essere un difetto.

Ma non ce n’è: a me il furbo molto furbo lascia sempre un sapore di fregatura, perfino se è un furbo di genio. Penso per esempio a Moby (a mio modo di vedere il “Paraculo dei paraculi”), che, dopo aver fatto un album ultrapop, strafurbo e puttano (Play), aver programmaticamente concesso a chiunque l’abbia chiesta la licenza di usare i suoi pezzi in pubblicità ammassando così una fortuna gigantesca (Wired, maggio 2002), continua a ripetere alla stampa: “Che strano, io non pensavo di avere tanto successo”. Il che dimostra che sarà pure un grandissimo paraculo ma non è sublime: il vero furbo di genio sta zitto e incassa, senza voler strafare.

Per un paraculo esagerato ce ne sono poi una quantità che sono simpatici ed innocui; gli Offspring sono probabilmente il gruppo musicale meno originale dall’invenzione della musica in poi. La furbata che c’è dietro il loro successo, la stessa che c’è dietro il successo di moltissimi divi del pop, è in realtà una delle regole auree dell’industria discografica (che se almeno fosse furba staremmo tutti un po’ meglio): una canzone di successo deve sembrare già sentita. Quelle degli Offspring (o di Zucchero, o di Marilyn Manson) rispondono inderogabilmente a questa regola. Idem per le cover, i tributi, i remake, etc: paraculate, perlopiù, ma indolori.

Furbizia e intelligenza hanno un rapporto curioso; spesso vanno insieme ma non sempre; ci sono mille esempi di persone intelligenti ma non furbe (io, tanto per dire) e viceversa; potremmo definire la furbizia come la capacità di utilizzare con efficienza i meccanismi che governano il mondo. Se lo si fa senza intaccare i diritti degli altri (o offendere la furbizia altrui, come nel caso del burlone Moby) va benissimo; se invece questo uso del mondo va a svantaggio della collettività (come nel caso delle majors che vogliono l’iva al 4%, secondo me senza averne alcun diritto, e poi sui cd applicano il “ticket tv” – e cioè ci fanno pagare la loro réclame) allora non va: dipende, come si diceva, sempre e solo dal tasso di senso etico del furbo in questione (dato non rilevabile, nel caso delle majors).