Google vede e provvede

Diventato il motore di ricerca più usato, superati i settanta miliardi di contatti l’anno e finalmente quotato in borsa, Google lancia Gmail, un servizio di posta comodo e innovativo. Che però legge la nostra posta per mostrarci pubblicità in tema, e chissà cos’altro.

E’ un verbo, to google, e una pratica comune – nel lavoro e perfino coi possibili partner. Nato nel ’98 e subito diventato il numero uno, Google si fa apprezzare per molte ragioni: la rapidità delle ricerche, la rilevanza dei risultati e soprattutto l’assenza di banner, sebbene non di pubblicità. E’ stato infatti il primo sito a sfruttare a fondo un meccanismo insito nella ricerca: loro lo chiamano AdWords, pubblicità testuale rilevante, o in tema. Se si cerca “tabacco”, compare un link testuale al sito Philip Morris, o ad un metodo per smettere di fumare. Pubblicità personalizzata, in teoria separata dai risultati ma in tema.

Questa tecnica però pone qualche problema, per esempio di privacy (nel caso di malattie o questioni legali), considerato che tutte le ricerche vengono conservate. Come? Con un cookie, un piccolo software che si installa nel vostro computer e lo identifica; ogni ricerca viene quindi registrata, dalla prima volta che vi siete collegati col vostro attuale browser fino alla scadenza del cookie, il 17 gennaio 2038 (per verificarlo, e periodicamente cancellarlo, andate nelle preferenze, ricezione archivi, cookies, mostra proprietà). Tutto certamente lecito, ma con l’uso che molti fanno di Google si possono creare profili davvero dettagliati anche solo dalle ricerche (pensate alle vostre). E ora è in fase di lancio un nuovo servizio che mi pare ancora più problematico: Gmail, la webmail di Google.

Ecco cosa offre: ricerca con Google tra i propri messaggi, spazio a bizzeffe (un gigabyte), grafica innovativa e “niente popup o banner generalisti: mostreremo solo pubblicità testuali in tema coi messaggi e link a pagine rilevanti”. L’esempio è uno scambio di email su Britney: i relevant ads sono aziende che vendono biglietti online, un sito di live music e una cantante simil-Britney. E se invece di Pop si parlasse di un lutto in famiglia, di reati o di desideri profondi? Ovviamente Gmail avrebbe pubblicità adatte a questi temi, ma non sono sicuro di volerle vedere. Non solo, ma tutti questi messaggi associati agli indirizzi email (dei mittenti e – attenzione – dei destinatari) creano un’immensa area di potenziali abusi. In Cina, dove la gente cercava i dissidenti, Google prima è stato oscurato e poi riaperto, ma leggo che ora chi cerca “human rights” dalla Cina trovi solo pagine approvate dal governo. E, considerati l’uso di Google (200 milioni di ricerche al giorno in 97 lingue) e l’atteggiamento sempre più disinvolto sulla privacy (di tutti, a partire dalle dotcom), non sarebbe strano se scrivendo a qualcuno “mi sento esibizionista” e “ho vent’anni” poi arrivassero proposte, magari personalizzate, di lavoro nel porno.

Ma non lo fanno tutti i provider? No, o quantomeno non dovrebbero; c’è scritto chiaramente nei contratti . Se poi lo fanno andrebbero perseguiti. Google promette solo di non leggere “fisicamente” la posta, e di non “rivendere, affittare (!) o condividere i dati personali per scopi di marketing”, riservandosi quindi ogni altro uso. Sentite invece cosa mi scriveva il mio provider Mclink all’entrata in vigore del decreto Urbani, che lo obbligava a segnalare alla Pubblica Sicurezza gli utenti di file sharing che condividessero materiale protetto da copyright: “A tutela della privacy dei nostri clienti e nel rispetto dell’articolo 15 della Costituzione, la nostra azienda non ha mai effettuato, e non intende effettuare, alcuna verifica se non a valle di una specifica disposizione dell’Autorità Giudiziaria.” Bravi, grazie: ecco un servizio che pago proprio volentieri.