Hacking the world

Hacker: ecco una parola che, nel 201X, pare fatta apposta per spaventare. Pericolosi criminali (di solito provenienti da paesi considerati “nemici”, come Russia e Cina) che rubano password, numeri di carta di credito, che ci guardano nella posta, si introducono nei nostri hard disc per prelevare foto sconce e poi distribuirle in giro per la rete. Naturalmente tutti questi fenomeni esistono davvero, e bisogna proteggersi (cambia spesso le password, non mettere nel cloud le tue foto zozze, non memorizzare il numero della carta di credito online, ecc.). Dispiace un pochino per quel termine, hacker, che oggi è diventato sinonimo di mascalzone. Vediamo di fare un pochino di chiarezza, e di riparare a un piccolo torto.

Nella storia dell’informatica, l’hacker è una figura fondamentale. Giovane geek con tanto tempo e inventiva, l’hacker di una volta passava le sue giornate (e nottate) a esplorare i limiti dei software, a cercarne le debolezze e le vulnerabilità. Poi si introduceva anche nelle reti e nelle banche dati, ma quasi sempre con lo stesso spirito: cercare i limiti, oltrepassare le barriere, comprendere (aggirandoli) i sistemi di protezione dei dati. Insomma avventurarsi dove nessuno era mai stato prima. Questo naturalmente creava grande scompiglio e preoccupazione (cosa che agli hacker faceva assai piacere), ma poco altro: il crimine non è mai stato davvero lo scopo dell’hackeraggio, almeno all’inizio. Non solo: esisteva una relazione assai complessa tra produttori di software e hacker. Tant’è che quelli più bravi molto spesso sono poi diventati consulenti per la sicurezza informatica. Ricordo ancora certi post sui forum specializzati, nei quali si chiedeva alla comunità hacker di provare a bucare un sistema, proprio per evidenziarne le debolezze – e quindi poter correre ai ripari.

Ma c’è di più. Esplorando i meandri più reconditi dei programmi informatici, molto spesso gli hacker ne scoprivano nuove funzionalità, bug che permettevano di fare cose diverse e di ottenere risultati imprevisti. Un comportamento assai simile a altri a noi ben noti. Quando Hendrix sperimentava con il Marshall stack (tanti amplificatori tutti insieme) o con la distorsione estrema, stava facendo esattamente la stessa cosa: testare i limiti della sua Fender, per produrre suoni non previsti, scoprire tecniche inedite – e spostare il gusto degli ascoltatori. Certi esperimenti coi primi synth, strumento che non ha mai avuto un libretto di istruzioni vero e proprio ma soltanto alcune dritte di base, vanno esattamente nella stessa direzione. Quando arriva il campionamento, negli anni ’80, si pensava che l’uso principale di questa tecnologia fosse di imitare strumenti pre-esistenti. Quando invece i musicisti, specie quelli Hip hop, iniziarono a campionarci dei beat, stavano hackando questa tecnologia – e reinventando il suono della musica Rap. E i produttori di questi strumenti non solo se ne accorsero velocemente, ma modificarono le caratteristiche dei loro prodotti per venire incontro a questa nuova modalità d’uso.

La storia della creatività è piena di hacker, di gente che butta il manuale e invece sperimenta, forza, flette la tecnologia per andare in zone inesplorate. E non solo per il gusto di farlo (come gli hacker della prima ora) o per liberare le tecnologie (come chi sprotegge gli iPhone): la storia della sperimentazione artistica è popolata di persone capaci di pensare “out of the box”, di sovvertire le tecniche (dalla poesia alla pittura a olio, fino a ProTools) per produrre risultati nuovi. Si chiamano anche ricercatori, perché fanno proprio questo: cercano cose che nessuno ha ancora trovato, e che poi utilizzeremo tutti – come nel caso della distorsione hendrixiana. Quindi, semmai dovessi trovarti a forzare un programma per fargli fare cose non previste, sappi che sei nel solco di una lunga e nobile tradizione: quelli che cercano. Perché, come dice il proverbio, chi cerca poi a volte trova.

One thought on “Hacking the world

  1. Stallman dà una definizione di hacker più estesa e comprensiva (le differenze sono sottili, ma ci sono).
    L’hacker è colui che *estende le funzionalità e migliora l’efficienza* di un qualcosa, non necessariamente nel campo della programmazione. Che è, certo, un modo per dire con altre parole quello che anche tu dici.
    L’hacker è anche quel bambino a cui viene regalata una macchinina e, invece che giocarci come gli altri bambini, *la smonta* per capire come funziona.
    L’hacking fu un tipico “sottoprodotto” della cultura hippie, fatto di gioco, sfida, molto borderline per quel che riguarda la legalità.
    Il padre “nobile” credo che sia ancora adesso Cap. Crunch, la cui biografia sarebbe da studiare più approfonditamente che quella del “fenomeno” Jobs.

    Vabbe’, ma che te lo dico a fare… 🙂

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