Come sappiamo bene noi che ci viviamo, l’Italia ha i suoi guai. Alcuni sono comuni anche a altre nazioni (e mal comune, si sa, è sempre mezzo gaudio), mentre altri sono tutti italiani. Ma i guai del mio paese che mi fanno più sorridere (e incazzare) sono quelli che ci rivendichiamo come pregi. La storia della volpe e l’uva insomma: non gliela facciamo e ce ne vantiamo. L’esempio più eclatante di questo genere di guaio è uno dei cancri nazionali, che mantiene l’Italia in uno stato di grave indigenza culturale, creando un divario ormai praticamente incolmabile tra il nostro e molti altri paesi del mondo: il doppiaggio cinematografico e televisivo. Una pratica nemica della cultura, stupratrice della nuance, tritacarne del doppiosenso e assassina della recitazione. Il doppiaggio inoltre è la causa principale del disagio non solo culturale ma ormai proprio sociale che i nostri giovani provano ogni volta che vanno all’estero. E quando gli stranieri mi chiedono come mai in Italia nessuno conosca l’inglese, l’unica cosa che posso fare è raccontargli di questa infamia che ci tocca subire.
Infamia che però in Italia è oggetto di vanto, al punto che quando ne parlo male mi sento inevitabilmente dire: “Però abbiamo i migliori doppiatori del mondo”. Lasciate allora che vi racconti la storia di un’altra forma di artigianato raffinatissima, che nel tempo ha raggiunto vette di sublime eccellenza: la Tortura. Da sempre ogni Re (o Papa) degno di questo titolo aveva il proprio torturatore di fiducia, un abilissimo artigiano del dolore in grado di estorcere ottime confessioni. Mica una cosa semplice: infatti il torturatore poteva avvalersi di straordinari strumenti di lavoro, come lo Stivaletto Malese o la Vergine di Norimberga, creati nel corso dei secoli da generazioni di torturatori, perfezionate con tecniche tramandate di padre in figlio in una linea ininterrotta, dalla notte dei tempi fino a pochissimi anni fa. Poi, a un certo punto, il mondo si è evoluto è la tortura è stata abolita quasi ovunque, bollata come infame. Vi immaginate cosa possono aver pensato i torturatori? Non dev’essere stato bello per loro veder scomparire una sapienza antica e evoluta, nonché una forma d’artigianato – e un posto di lavoro. Sono sicuro che anche allora qualcuno ha detto: “Ma come, abbiamo i migliori torturatori del mondo, e aboliamo la tortura?”
Il doppiaggio dei film è innanzitutto inaccettabile nei confronti dell’arte della recitazione: la voce di un attore è almeno il 50% del suo lavoro, e non si arriva a capire come mai nessun attore abbia mai protestato per il doppiaggio, se non per il fatto che quasi tutti gli attori italiani sono anche doppiatori. Poi è spesso offensivo nei confronti del regista e dello sceneggiatore, non tanto nel doppiaggio quanto nell’adattamento, che nella migliore delle ipotesi si limita a adattare la lunghezza delle frasi tradotte ai labiali originali (e le sottigliezze possono pure andare a farsi fottere). Nelle peggiori invece, può far sparire interi concetti (ritenuti inadatti per il pubblico italiano), attenuare situazioni troppo torbide – o semplicemente decidere che a Brooklyn si parla con un grottesco accento semi-meridionale, mandando a puttane un intero film. E infine è perfido nei confronti degli italiani, privati del metodo principale con cui si apprendono le lingue nel resto del mondo. Certo che in Olanda l’inglese si insegna nelle scuole, ma quando ti tocca guardare i cartoni animati in originale vedi che lo impari subito. Invece qui da noi ci godiamo i doppiatori: non ho visto Borat in italiano, ma immagino lo strazio, e l’insensatezza.
Pensierino finale: chissà come mai nessuno ha mai pensato di doppiare anche i cantanti? In fondo la voce di Avril Lavigne è molto meno rilevante di quella di Kevin Spacey o di Fanny Ardant e, se non sbaglio, abbiamo anche alle spalle una tradizione vocale secolare. Si creerebbero subito centinaia di posti di lavoro, e in molti casi si renderebbe un servizio migliore al prodotto originale – consentendo finalmente all’interprete straniero di concentrarsi sulle faccine.
Una provocatoria cura omeopatica potrebbe esser un ciclo di commedie all’italiana proiettate in una lingua differente e ascoltare poi l’effetto che fa.
Immagino cosa potrebbe esser un film di Totò in tedesco, Alberto Sordi in giapponese, Vittorio Gassman in russo…
R I B U T T A N T E!
Un esempio sugli adattamenti italiani: i serial televisivi “La Tata” e “Pappa e Ciccia”(quest’ultimo veramente brutto come titolo italiano anche se rendeva l’idea dei personaggi), venivano doppiati con accento napoletano, e ne “La Tata” hanno trasformato la protagonista di origini ebree in una ciociara, la zia era in realtà la madre e la zia
la nonna!!! Forse si salva da tutti gli altri serial “I Soprano” in cui “la famiglia” di origini avellinesi è doppiata con accento campano, e pure nella versione americana, permangono nello slang parole degli italo-americans :”Ma vafangool” per esempio, sempre sula bocca di Gandolfini. oppure nel celebre film “Ritorno dal futuro” la scritta sugli slip di Micchal J. Fox non è Levi’s ma Clvin Klein, perchè ai tempi in Italia CK non era ancora famoso!!! sempre attenti quando ci sono i marchi in gioco. Ciao e buone feste Sergio.