Ho spesso detto che per me la televisione schifosa è la più bella, e la perdurante eco dell’Isola dei Famosi sembra darmi ragione: la psicosi coatta di Adriano, la nenia ciondolante della contessina, il vuoto siderale di Walter (il cui povero figlio si chiama Elvis Nudo), la progressiva deriva psichica dei partecipanti: un orrore, che ha giustamente tenuto il paese televisivo (e pure me) incollato al video.
Ma a questa regola c’è da sempre un’eccezione, una fascia di programmazione colta, intelligente e ironica che guardo con ardore: Blob/Fuori Orario. Per Blob (l’unico programma tv che difenderei in piazza) le ragioni sono semplici: raccoglie il peggio (cioè il meglio) della televisione in un comodo compendio che mi permette di godermi the very best of Cucuzza (che si sta trasformando in un espositore di cosmetici vivente) senza doverlo guardare, che non gliela farei. Per Fuori Orario il discorso è un po’ diverso; certo che mi annoio a vedere quei film svedesi con poche criptiche parole e lunghi silenzi gravidi di significato, ma dopo averne visti un po’ ho ne ho capito il senso: evocare nello spettatore una desolata e irrimediabile angoscia, che è sì il giusto contrario dell’insopportabile lieto fine americano, ma ha un difetto: mi lascia addosso una sensazione di desolata e irrimediabile angoscia che non s’affronta.
Fuori Orario però trasmette spesso cose meravigliose. Ho visto più volte, ma mai dall’inizio, un documentario che racconta in bianco e nero la transumanza di certi pastori (credo armeni); una fatica immane, chilometri di sentieri lunari percorsi a piedi, con una cura amorevole e brutale per le pecore che raggiunge l’apice nel guado dei fiumi: le bestie vengono prese di peso una per una e portate in salvo da questi eroi pastorali, che fanno avanti e indietro nell’acqua gelida con le pecore in braccio. Un film emozionante, che non avrei mai visto se non ci fosse stato Fuori Orario, ed è soltanto un esempio tra mille.
Adesso mi manca solo una cosa, che è una vera spina nel fianco: capire di che parla Enrico Ghezzi, coautore di ambedue i programmi. Lo ascolto con curiosità da vent’anni, apparteniamo alla stessa area culturale, siamo generazionalmente vicini, abbiamo perfino amici in comune ma non ho mai capito un cazzo di quello che dice. Mi sforzo come una bestia, che magari sta dicendo una cosa fondamentale, ma la mia capa non decodifica: “Il cinema… o meglio la sua nemesi… si ribalta contro se stessa… in un vortice di decoupage…” (sto improvvisando) e già m’ha perso. Da quando è fuori sincrono poi sono ancora più smarrito; mi piacerebbe chiedere a qualcuno che legge le labbra: magari nel video dice cose fantastiche, ma nel nuovo audio la sua nemesi si ribalta contro se stessa e io non ci capisco più una mazza.
Adesso scriviamo pure sullo stesso giornale: “Questa è la volta buona,” ho pensato; “se non lo capisco posso rileggere – magari ad alta voce (in sincrono) – e capire”. Ha funzionato? No. Qui parla (credo, ma ho ancora dei dubbi) di un viaggio in treno: “… il treno tutto dorme, essere sveglio mi fa sentire fuori posto e infine in sonno io, o in sogno, fuori dalla principale attività di quel lungo mobile, ragazzo che spia in punta di piedi la camerata addormentata. Sette o otto scendono con me, la loro mezza età (venti/sessantanni) non mi pare si risvegli atterrando sulla panchina, si muovono dormendo.”
Che mobile? In treno? E il ragazzo? O era di mezza età? Venti o sessanta? Dal treno è atterrato su una panchina? In che senso (direbbe Verdone guardando in alto)?
Non ti capisco e mi dispiace molto (se non fosse così non lo starei scrivendo). So che mi perdo qualcosa; fai dei programmi così belli che hai sicuramente mille cose interessanti da dire. Potremmo fare così: io continuo a sforzarmi di ascoltarti e leggerti per cercare di capire almeno l’argomento. Ma tu prendi in considerazione l’ipotesi di farti una bella transumanza con quei pastori (credo armeni): attraversare ripetutamente fiumi gelati con una pecora in braccio potrebbe farti trovare un po’ di concretezza, e magari poi ti capirei anch’io.