L’unica cosa che accomuna un patito di canapa indiana e derivati (hashish e marijuana, per intenderci) ad un eroinomane è che ambedue le sostanze sono illegali. Di fatto il fumatore di spinelli ha un atteggiamento molto più simile a quella di un intenditore di vino (e quindi non necessariamente un ubriacone): sa riconoscerne le diverse varietà, ne distingue la freschezza, il sapore, l’azione sull’organismo ed anche, ovviamente, nella testa. Sa se di un certo hashish può consumarne di più senza provare fastidiosi effetti collaterali, ne conosce l’influenza sul suo comportamento e si regola di conseguenza (un sacco di gente fuma solo dal tramonto in poi); insomma non si comporta affatto come un “drogato” (o un alcolizzato, un tabagista) ma piuttosto come un consumatore appassionato di tè, di caffè o di amari locali. Quello che lo distingue da queste categorie più fortunate è appunto il fatto che la sostanza che lo appassiona (e che ogni anno fa tanti morti quanti ne fa il tè – e cioè nessuno – ma meno del caffè e degli amari locali) in Italia è proibita dalla legge. Questo espone il nostro fumatore ad una interminabile serie di disagi: la segretezza con la quale deve agire, la variabilità immotivata dei prezzi, l’incertezza dell’approvvigionamento, la polizia e, ultimo ma non ultimo, la mediocrità del prodotto.
Immaginiamo adesso, per ipotesi, che il Lambrusco fosse vietato: fabbricata di nascosto con procedimenti incontrollabili, la preziosa bevanda sarebbe esportata illegalmente dal Modenese in taniche di plastica montate dentro serbatoi di camion; versato in barattoli sporchi, verrebbe quindi tagliata con acqua di fiume, piscio di vacca e Lysoform scaduto, e quindi lasciata all’aria per dei mesi in attesa di essere venduta di nascosto, alla modica cifra di diecimila lire ogni due bicchieri scarsi.
La varietà di hashish più disponibile sul mercato italiano si chiama Cioccolato, e fa quasi sempre schifo. Prodotto illegalmente in Spagna (o in Marocco) utilizzando procedimenti completamente industriali e materie prime incredibili (rami e sterpi di cannabis, ma anche terra, henné, olio di macchina, sterco di cammello, copertone grattugiato ecc.), nel viaggio – di solito per mare – è spesso trasportato sott’acqua in contenitori “ermetici”. Al suo arrivo in Italia viene immagazzinato (male) per mesi o anni (non c’è mica la scadenza) in attesa di essere venduto ad uno che lo da ad un altro che poi lo taglia… fino al nostro povero fumatore. Quello che costui è costretto a fumarsi, dato che non c’è altro (il mercato è in mano a mafie che non conoscono le differenze di qualità), non è nemmeno lontanamente paragonabile al peggior vinaccio in barattolo venduto in autogrill (Papa Ricky lo ha giustamente definito “lu fumu chimicu”): brucia alla gola, guasta la bocca, puzza di elastico bruciato e dopo sei tirate non lo senti proprio più. Altro che la Narcotici: di porcherie del genere dovrebbe occuparsi l’Ufficio d’Igiene o l’Unione Consumatori. Direte voi: com’è che uno non la smette, dato questo quadretto sconfortante?
E’ che poi succede che arriva un amico da Amsterdam, dal Nepal o dal Marocco e porta con sé un souvenir: un pezzetto di hashish eccellente e freschissimo (ciò di cui il paese ha bisogno), frutto di una sapienza distillata in migliaia di anni di tradizione (sapore antico, gusto moderno), una spezia dal sapore aromatico (con princìpi attivi naturali), dal profumo indimenticabile, dagli effetti dolcissimi e, porca miseriaccia ladra, innocua per chiunque.