Il Rock nel paese dei Bifolchi

Nei giorni scorsi è tornata alla ribalta una parola molto importante per noi di Rumore (intendendo anche voi, ovviamente). L’ha riportata in auge Adriano Celentano, se n’è subito impossessato Vincenzo Mollica, Mara Venier ne è diventata la paladina e tutta Rai Uno l’ha indossata, nel patetico e apparentemente fallimentare tentativo di farla diventare un tormentone. Incredibile a dirsi ma la parola è Rock. Allora, siccome noi siamo un’autorevole rivista Rock, con una sua credibilità Rock e un pedigree Rock (come direbbe Mollica), ho pensato che fosse opportuno parlarne, giusto per capirci.

Infatti noi che ce ne intendiamo sappiamo tutti che il termine Rock ormai non vuol dire una mazza, no? Quale Rock? Bon jovi o i Punkreas? i Tool o gli Europe? Maccarini o Iggy Pop? Celentano o Pete Doherty? O forse intendiamo un’etica Rock, ma anche queste sono molte e inconciliabili: quella dei Mötley Crüe o quella degli Shelter? Harry Rollins o Kid Rock? Magari Adriano fa riferimento a una forma di coolness (approssimativamente traducibile con ficaggine) rock, ma quale? I Nirvana o Bill Haley and the Comets? Ian Curtis o Elton John? Non si capisce, e purtroppo non c’è niente da capire. La spiegazione la conosciamo tutti ed è sempre brutta a dirsi. Ma va detta.

L’Italia è un paese culturalmente arretrato, dove il termine Rock può essere usato a sproposito perché nessuno ne sa nulla, e a cinquant’anni dalla sua comparsa se ne può ancora parlare a vanvera. E’ un paese che sta a sentire uno che per rock intende Rock around the clock, che è rimasto lì e da cinquant’anni ci ripete sempre le stesse cose – che diventano più ovvie ogni volta. Uno che ignora completamente mezzo secolo di storia, e storia sociale, ridicendoci per la millesima volta che la periferia è lenta e la foresta è Rock; come se gli Who, i Clash e i Public Enemy non fossero mai esistiti. Ma Celentano, si sa, è ignorante. Quello che mi terrorizza sono i milioni di suoi fans in giro per l’Italia, che si bevono le sue chiacchiere. Purtroppo nessuno ha fornito loro gli strumenti per capire l’evoluzione della storia di questo fantomatico Rock: e dire che Mollica avrebbe potuto, se non fosse stato troppo occupato a intervistare l’incolpevole Ricky Gianco. E Rai Uno, che gli manca poco per autodefinirsi una Tv Rock, avrebbe avuto i mezzi per scolarizzare i bifolchi d’Italia, quelli che mentre si radono canticchiano Come va come va? di Al Bano. Per spiegargli che è successo qualcosa tra I ragazzi della via Gluck e il 2006. Non chiedo tanto, non mi aspetto di trovare i Modern Lovers in un juke box di Rovigo. Ma lasciare la gente nel ’63 mi pare criminale, specie per una Tv di stato, e questi sono i risultati: il paese in preda a un equivoco, gente che pensa che Mollica e la Venier siano Rock e tutti i tamarri d’Italia che ci si sentono perché anche loro trovano brutta la periferia. Mio Dio: chi traghetterà tutta questa povera gente nel terzo millennio?

L’unica perla davvero Rock del programma, almeno finora, è stata lo sputazzone di Patti Smith (compatto e professionale) alla fine del secondo ritornello di Because the night: riassume perfettamente cos’è successo in questi cinquant’anni di Storia della Musica, tutto quello di cui Adriano e Vincenzo non si sono accorti. Brava Patti (che era in promozione: ricorre il trentennale di Horses), grazie mille.

PS: Siccome nel corso degli ultimi anni non sono mai riuscito a far scrivere su Rumore una singola notizia sulle cose che faccio, suppongo che Claudio Sorge consideri questa pagina come mia. Quindi vi annuncio che è stata finalmente trovata la Cura del Sabato Sera. E’ il mio programma radio, che si chiama Rolling Stone Play Show e va in onda il sabato a mezzanotte su Play Radio (info e frequenze su playradio.it). E’ un format un po’ diverso, con musica scelta e varia, chiacchiere ad alto voltaggio e la partecipazione del pubblico. Solo per gente sveglia.