L’insegnamento è spesso un’esperienza assai stimolante, specie se si spiega una materia ancora non completamente codificata come il sound design o la musica elettronica. Spesso infatti si è obbligati a avventurarsi in zone poco battute, nel tentativo di spiegare concetti nuovi per i quali non solo non c’è una teoria, ma non ci sono neanche le parole per dirli. Ne ho già parlato in questa pagina: le nuove forme richiedono nuovi strumenti teorici, a partire da un vocabolario.
Uno dei concetti a cui annualmente dedico alcune lezioni è proprio uno di questi, certamente codificato ma comunque nebuloso e inafferrabile, benché tutto sommato evidente: il pieno e il vuoto, in musica e nel sound design. Intuitivamente sappiamo tutti cosa si intende per vuoto e pieno, e sapremmo indicare dei brani di ambedue i tipi. Ma se si cerca di afferrarlo, il concetto sfugge. Istintivamente pensiamo che una musica vuota sia fatta di pochi suoni. Questo è vero solo in parte: molti degli straordinari dischi di Gerald Jupitter-Larsen, musicista noise-concettuale americano, sono realizzati con uno, massimo due elementi sonori (rigorosamente mono); eppure sono tra gli ascolti più pieni che si possano immaginare. I Metallica, in quattro, fanno molto più pieno di un’orchestra che suona Bach. Non è nemmeno una questione di volume: uno degli appunti che si fanno alla musica Techno è quella di essere vuota e ripetitiva – la seconda obiezione essendo che si suona troppo forte. Nemmeno la velocità del ritmo sembra essere decisiva: c’è musica lenta e pienissima, o veloce ma vuota.
Quello della contrapposizione tra pieno e vuoto in musica (e quindi nel sound design) è un tema antico, che nella musica classica (specie in quella sinfonica) raggiunge livelli altissimi, e nel XX° secolo diventa un tratto fondamentale di tutte le avanguardie. A volte anche troppo: sono un grande fan della musica che si svuota, ma a volte questo sembra essere l’unico espediente a disposizione del compositore. La musica Pop (in un senso ampio) invece lo scopre molto tardi; il jazz solo negli anni ’50, e il rock nella seconda metà dei ’60. All’inizio si tratta perlopiù di esperimenti (penso a Revolution 9 dei Beatles, per esempio), ma già coi Pink Floyd (e tutto il prog rock, in realtà) il vuoto diventa una delle soluzioni possibili.
E’ con la nascita dello studio/strumento e del fonico/musicista che vuoto e pieno in musica conoscono una nuova primavera. Quando il mixer diventa uno strumento musicale, il tasto “mute” delle singole tracce rende possibile lo svuotamento istantaneo della musica. Questo, accoppiato agli effetti (in particolare equalizzatore, riverbero e delay), ha dato vita a un genere fondamentale per la musica di oggi: il Dub. Nel Dub si sperimentano per la prima volta delle soluzioni di pieno/vuoto che poi diventeranno grandi classici, comuni a tutte le musiche elettroniche di matrice Pop. Di più: il Dub è la prima musica “leggera” a porsi il problema del suono come massa, volume da spostare, scolpire, incavare – insomma da trattare come una scultura. I grandi Dub Master, come Lee Perry o Mad Professor, sono maestri proprio nell’arte di modellare la materia sonora, scavandola fino a quando sembra che stia per rompersi, per poi riempirla di nuovo.
Bisogna ringraziare questi pionieri; senza di loro oggi la musica sarebbe molto più povera, e il vuoto in musica sarebbe rimasto appannaggio della musica colta. Che, penso a certo pianismo italo-estatico, produce parecchia musica vuota, ma nell’altro senso – quello che non ci piace.