Di recente ho intrapreso una esperienza cultural-musicale un po’ d’altri tempi. Un mio buon amico, eccellente cantante con una voce fantastica e un istinto micidiale per la melodia, ha ascoltato (e quindi assorbito) molti generi musicali ma, come succede spesso, non in modo sistematico ma appunto istintivo. A un certo punto della nostra (oramai antica) amicizia ho avuto una folgorazione: dovrebbe cantare il Blues, e gli riuscirebbe benissimo. Il punto è che lo conosce in modo generico; ne ha ascoltato, gli piace, ma ne sa quanto ne sanno tutti – non molto. Allora abbiamo deciso che inizio a passargli della musica, corredata di note, per entrarci meglio dentro. Il Blues infatti, come il Reggae, lo Speed Metal e tutti gli altri generi moderni, per capirlo bisogna viverci un po’ in mezzo, abitarlo, farselo amico, capirne le caratteristiche, i pregi e i difetti, il folklore, ecc. A chi non lo conosce, il Punk pare tutto uguale; poi, entrandoci dentro, si iniziano a capire le differenze (a volte immense) tra sotto-generi, periodi, provenienza, etichette, ecc.
Se questo è vero per la House, lo è cento volte di più per il Blues la cui nascita, nella seconda metà dell’800, è avvolta nel mistero. Di più: è una musica che nasce dallo scontro forzato di due mondi (Africa e America), che germina da un dolore così potente, quello di donne e uomini in schiavitù, che fa impallidire (fino quasi a renderli ridicoli) gli altri disagi che hanno generato delle musiche (come essere un teenager inglese negli anni ’80). Non solo: tutto viene dal Blues. Quasi chiunque abbia preso in mano una chitarra nella seconda metà del ventesimo secolo ci ha suonato del blues, che lo sappia o meno. Che vi piacciano Lady Gaga, i Ramones, Eminem, Justin Bieber, Bjork o Celentano, è musica che deriva dal Blues, che contiene del Blues, che perpetra quelle emozioni, quelle note, e quella scala.
Eh sì, perché il Blues (e la sua musica gemella Gospel, rivolta allo spirito invece che alla carne) introduce delle nuove note alle orecchie degli occidentali, aprendo la via a un terzo possibile sviluppo oltre ai soliti maggiore e minore: la scala Blues. Per i più tecnici: abbassando il terzo, il quinto e il settimo grado della scala minore di circa un quarto di tono si ottiene una scala nuova, che evidentemente tocca delle corde assai profonde dell’animo umano: non trovo altra spiegazione all’onnipresenza di questa scala nella musica Pop. Naturalmente gli strumenti più adatti a produrre questa musica sono quelli in grado di suonarla: la chitarra e il banjo, dove è possibile tirare le corde (il trick base del chitarrista rock), il violino, l’armonica (che produce queste note solo se opportunamente stimolata) e naturalmente la voce.
Quello dell’interpretazione vocale è sicuramente l’altro elemento cardine del Blues che pervade tutta la musica di matrice Pop, bella o brutta che sia. Fino agli anni ’50 il cantante non doveva mai usare il corpo, e la sua voce non doveva riflettere alcuna emozione nel tono – che si apprezzava proprio in quanto puro e limpido. Nel Blues viceversa il tono è tutto, e si può anche non dire niente e trasmettere emozione. Il Rock’n’roll, che è semplicemente Blues veloce, si appropria di questo elemento e lo esaspera, producendo un effetto spettacolare sui teenager dell’epoca. In Italia questi cantanti venivano definiti “urlatori” e contrapposti ai melodici di stile classico. Il Blues nasce proprio come grido (di disperazione, ma anche di amore e di sesso), e perfino nelle sue incarnazioni più distanti richiede questa tensione: ecco perché Pavarotti sembrava così incongruo alle prese col repertorio moderno.
Di Blues ce n’è di vari tipi, con in comune solo questi due elementi. Può essere rurale, arcaico, del sud (degli USA), strumentale e solista, registrato o dal vivo. Sapere se vi piace è facile: Youtube, Hobo Blues di John Lee Hooker. Se restate come me a bocca aperta ogni volta, procuratevi una copia del libro “Deep Blues” di Robert Palmer e iniziate a studiare.