Credo di avere qualche titolo per parlare della libertà di stampa in Italia; non solo sono stato in vario modo all’interno di questo dibattito, ma lo faccio in un posto adatto. Rumore infatti, benché atipica, è certamente una rivista italiana, e mi pare un buon esempio per inquadrare il problema. Rumore è un giornale libero? Certamente sì: chi mi legge sa che a volte affronto argomenti spinosi, ma mai una volta in 13 anni mi è stato chiesto di smussare qualcosa. Questo atteggiamento credo valga anche, con le dovute differenze, per la gran parte della stampa italiana, dove si può scrivere più o meno quello che si vuole. Poi a volte si discute, ma nella maggior parte dei casi no: se collabori con Famiglia Cristiana, un articolo sui vantaggi della penetrazione anale proprio non glielo proponi. In Italia si può anche dire quello che si vuole, oltre che scriverlo. Naturalmente c’è l’aberrazione delle cause con richiesta di risarcimento contro comici e vignettisti, ma non esiste una polizia delle opinioni (come invece accadeva nelle grandi dittature del ‘900) o la censura. Ognuno può esprimere esattamente quello che pensa, e niente e nessuno gli impedirà di farlo o lo processerà per questo (sempre fatte salve le cause, che sono ripugnanti e assolutamente bipartizan). Quindi, secondo me, in Italia le libertà di stampa e di parola sostanzialmente ci sono.
Il problema invece si chiama Pensiero Mafioso. Lo scrivo in maiuscolo perché non solo questa mentalità governa la vita culturale del nostro paese, ma mi pare sia il nocciolo della questione. E non è solo un problema di Berlusconi o delle destre, anzi. Chiunque abbia cento grammi di potere in Italia pensa esattamente come un picciotto. Ad esempio:
Nel 1990, sull’onda delle rivelazioni su Gladio, mi inventai RadioGladio, uno spoken word di 4 minuti in inglese che raccontava la vicenda, inciso su cassetta no © distribuita gratis, chiedendo alla gente di copiarla e diffonderla. La cosa funzionò e si sparse la voce. Io ne ho avuto notevoli vantaggi di visibilità, e lo rifarei oggi. Ma anche qualche rogna, tra cui un’indagine conoscitiva della Questura di Roma, volta a appurare se io fossi un eversore, e naturalmente a intimidire chi aveva collaborato con me. E un indimenticabile colloquio a Radio Rai, dove all’epoca collaboravo assiduamente, in cui un “dirigente” (una mezza tacca socialista con la faccia più stupida del creato) mi disse: “E’ troppo facile mettere un comunicato politico in musica.” Dopodiché il mio telefono semplicemente smise di squillare e, a parte qualche piccola collaborazione anni dopo, la mia storia con la Radio di Stato fini lì.
Forse il dirigente era un gladiatore sotto copertura? Magari qualcuno dall’alto gli aveva detto di neutralizzarmi? No. Lui agiva secondo la semplice regola che governa qualsiasi forma di espressione in Italia: la cautela, la preferenza per il safe, l’ovvio ma privo di rogne invece del guizzo che magari dispiace al Boss. Alla censura in Italia non serve un ufficio: ne ha uno nella testa chiunque decida. E anche comprensibilmente chi ha qualcosa da perdere, magari un free-lance che non può permettersi di rimetterci per un’opinione. L’indipendenza in Italia non paga. Infatti ci si lamenta dei programmi Tv di idee diverse, ma non della cosa davvero grave: la totale mancanza di voci indipendenti da ambedue le fazioni.
Voci che naturalmente risultano scomode per chi comanda ma non per chi le ascolta: Travaglio o Luttazzi (e assai più in piccolo anche il sottoscritto) fanno ottimi ascolti. Però portano anche qualche rogna. Ecco come mai, a destra come a sinistra, vanno tanto le raccomandazioni: certificano la dipendenza dal potere e l’adesione a questo codice. E allora, in un paese di camorristi vendicativi, perché rischiare che poi magari si scontenta qualcuno? E’ come nella mafia, meglio prevenire che curare. D’altronde si sa: chi si fa i cazzi suoi campa cent’anni (ma poi speriamo che muoia male).
(nell’immagine Enzo Biagi)