La fuga dei cuori

Come forse sapete, se siete affezionati lettori di questa pagina, sto progressivamente spostando il baricentro della mia attività lavorativa (e quindi creativa) fuori dall’Italia, ho iniziato a produrre in lingua inglese e – in prospettiva – conto di levarmi dalle palle. Naturalmente ho sentimenti molto alterni rispetto a questo passo, dall’euforia ai sensi di colpa, alla rinnovata convinzione (ogni volta che guardo un telegiornale) che sia proprio ora di andarsene. Avendoci quasi 50 anni (fatemi gli auguri, questo mese ne compio 49) ovviamente vivo questa scelta anche come una sconfitta: la mia generazione, vista da fuori, fa orrore quanto le precedenti, e non sembriamo essere riusciti a fare una differenza. Siamo scarsi come genitori, come cittadini, come imprenditori… Siamo uguali alla generazione precedente, che ci pareva orrenda e dalla quale speravamo davvero di distinguerci.

Confesso che viceversa ho un debole per le generazioni successive alla mia, e quindi probabilmente anche la vostra. Mi sembrano meno pesanti, meno ancorate a idee e concetti un po’ antichi e molto più disinvolte, almeno di me, nel pensare – e perfino nello stare al mondo. La leggerezza può essere una grande dote, che purtroppo mi manca, e una maniera saggia di veleggiare la vita. Oh, naturalmente queste sono considerazioni generali, poi ognuno fa caso a parte: io e Dario Franceschini, il vice di Veltroni, siamo praticamente coetanei ma la somiglianza finisce li.

Un buon esempio di bella leggerezza nel vivere riguarda proprio questa questione dell’andarsene dall’Italia. Prendete me: sono mesi che strillo e strepito, che non ci dormo la notte, che mi rode proprio di dovermene andare ma che mi sembra di non poter fare altrimenti (e infatti vado). Moltissima gente che conosco, invece, ha semplicemente preso ed è andata via, senza tante pugnette. Poi, se capita, qua in Italia ci viene anche, perfino a lavorare, ma ha semplicemente capito, prima e meglio di me, che qui non c’è storia ed è andata a fare la sua cosa altrove. Viaggiando, specie per motivi di lavoro, ne incontro moltissimi. Sono svegli, bravi e preparati, lavorano benissimo – a volte in maniera sublime. In Olanda ce n’è un bel po’, ma anche in Germania o a Londra (e, immagino, negli USA): alcuni perfettamente mimetizzati, mentre altri sono e resteranno italo-qualcosa a vita. Ma non è così importante: fanno bene quello che fanno, e questo conta molto.

Come dite? Rubbia e Levi Montalcini? La “fuga dei cervelli”? No, io non parlo di scienziati. Quelli ce li siamo già giocati e non mi sembra il caso di tornarci su. Io parlo di i musicisti, video-maker, programmatori coi controfiocchi, ma anche fonici, produttori di installazioni, radio-artisti o illustratori eccentrici. Di tutta una fetta di “creatività italiana”, in certi casi la migliore, che qui – se ha culo e contatti – può giusto sperare di fare allestimenti per mobilifici brianzoli durante la settimana del mobile (l’unico evento culturale milanese superstite), o siti web per bevande riprovevoli. Di una o due generazioni di teste che, silenziosamente ma sempre più frequentemente, si sono spostate altrove. E se fino a qualche anno fa bisognava spostarsi fisicamente, oggi la cosa può essere completamente invisibile e virtuale, ma non meno vera e dolorosa per noi italiani.

L’esempio perfetto è proprio la musica: spesso si gioisce quando una band italiana ha un contratto con un’etichetta (major o indipendente) straniera; lo consideriamo un segno di distinzione. Per come la vedo io lo è, ma a nostro discapito: il bello sarebbe se quella band avesse potuto avere un contratto in Italia con qualcuno che poi distribuisce nel mondo. Non solo in questa maniera i proventi resterebbero qui, ma questo trainerebbe tutta la scena, che invece mi pare sempre più arida. Insomma, mentre tutti ci addoloriamo (giustamente) per la fuga dei cervelli, mi sembra che ce ne sia stata anche un’altra di fuga, molto meno visibile ma non meno grave: quella di alcune belle anime, cuori impavidi e cape funzionanti, verso lidi creativi più fecondi. Buon per loro, certamente; assai meno per chi, poveraccio, “è nato e morto qua” (cit.).

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