Tra i nuovi comportamenti emersi grazie alla rivoluzione digitale e i Social network ce n’è uno molto attuale e rivelatorio del sentire contemporaneo. In inglese si chiama Virtue Signalling, cioè ostentare aderenza a cause o valori morali che riscuotono consenso nel proprio gruppo di riferimento, al fine di ottenerne l’approvazione e l’ammirazione. Prima di Internet il Virtue Signalling era un’operazione complessa. Un grande classico della mia adolescenza (nel tardo Medioevo) era di mettere certi libri o dischi bene in evidenza, così da impressionare i propri amici (e per noi maschi specialmente le amiche), segnalando la nostra raffinata cultura o appartenenza a certi mondi. Poi a un certo punto è successo qualcosa. Nella mia memoria sono state USA for Africa/Live Aid, le due prime grandi iniziative di beneficenza Tv che hanno coinvolto i più bei nomi del Pop anni ’80. Attenzione: non sto dicendo che si sia trattato di operazioni di Virtue Signalling. Sto segnalando che questi sono stati i primi esempi di un fenomeno nuovo: Popstar che si attivano collettivamente per cercare di risolvere un problema, utilizzando la propria visibilità per sensibilizzare il pubblico e raccogliere dei fondi. Non solo si è trattato di manifestazioni encomiabili, ma hanno raccolto 63 milioni di dollari la prima e 50 la seconda, per una causa sacrosanta e urgente: la carestia in Africa.
Un effetto collaterale molto importante di queste iniziative è che hanno cambiato per sempre il comportamento delle star musicali (e non solo), che da qui in poi hanno dovuto acquisire anche una dimensione impegnata. E mentre questo cambiamento ha prodotto effetti sostanzialmente positivi, come la raccolta di fondi o l’affermazione di sensibilità diverse su temi come il razzismo e l’omofobia, non si può non osservarne l’altro lato. Oggi non esiste nessun personaggio che non leghi il proprio nome a una qualche causa, probabilmente perché ci crede, sicuramente perché il proprio pubblico lo esige. Un attore, una cantante, un influencer che non abbia a cuore qualche causa o categoria non sarebbe accettabile – risulterebbe vuoto e superficiale. E mentre in molti casi il coinvolgimento dell’artista è sincero, in altri si tratta evidentemente di Virtue Signalling. Un indizio è quando qualcuno sostiene una causa sulla quale siamo già tutti d’accordo – specialmente se si rivolge al proprio segmento di pubblico perorando un’idea largamente condivisa. Non faccio nomi, gli esempi sono molti e evidenti.
Nel 2021 però tutti abbiamo il nostro segmento di pubblico, e un gran numero di persone interpreta la propria pagina Social come se fosse Bob Marley. Non è colpa nostra: il medium ci ha costretti a costruirci una “Persona pubblica”, che da un lato è simile a noi, ma dall’altro deve proiettare il nostro Sé potenziale, cioè come vorremmo essere visti dagli altri. Tra gli espedienti più comuni di questa scultura sociale digitale c’è proprio il Virtue Signalling, che si manifesta in molti modi, dai post contro qualcosa che per i nostri contatti è ovvio (gettonatissimi il razzismo e gli animali maltrattati, talvolta con un linguaggio simile) ai Fundraiser per il proprio compleanno, in cui generosamente rinunci ai regali per fare, e invitarmi a fare, del bene. Attenzione: sono favorevole alla violenza sulle donne e al razzismo, o contrario alle donazioni benefiche? Ovviamente no. Però osservo che questo fare del bene implica anche attrazione di consenso su di sé. Un consenso sociale che nel terzo millennio sembra essere molto importante, tanto quanto è importante la “Persona pubblica” che coltiviamo ogni giorno sui Social. Una persona diversa, amplificata, che si esprime in un altro modo (nessuno farebbe mai un proclama contro la guerra durante una bevuta tra amici), e che racconta un aspetto di noi abitualmente più nascosto: come vorremmo essere considerati dagli altri. Una narrazione nuova e complessa che a volte riesce, altre no.
Con questo articolo sono 25 anni che collaboro con Rumore.