Ho già scritto in passato di avere l’impressione che, qui in occidente, la condizione di essere giovani sia molto sopravvalutata. Poi naturalmente in Italia abbiamo un problema di gerontocrazia, di ricambio generazionale difettoso (per colpa dei vecchi) e di sottovalutazione dei giovani. Però, nel folclore popolare, la gioventù è beata, felice e cazzona. Chi lo pensa evidentemente ha scarsa memoria, eppure è un luogo comune ben radicato. Esattamente come quello opposto: invecchiare è tremendo e irreversibile, una condizione da compatire e da nascondere, anche solo visivamente, con qualsiasi mezzo.
Ambedue questi luoghi comuni hanno un fondo di verità. Non solo, ma il conflitto tra generazioni (che scoppia dopo la seconda guerra mondiale) inasprisce le differenze: da un lato gli Who sostenevano di voler morire prima di diventare vecchi, dall’altro la società degli adulti si affrettava a bollare come “eccessi giovanili” le manifestazioni di disagio (davvero assai legittimo, ieri come oggi). Però, proprio come essere giovani non è affatto un’esperienza beata, felice e cazzona (forse in minima parte, ma certamente non solo), invecchiare non è soltanto tremendo e irreversibile, e tingersi il pizzetto come fa Ignazio non è l’unica soluzione.
Invecchiare, in realtà, ha alcuni aspetti interessanti, nonché piuttosto divertenti – specialmente se si affronta cercando di non dare niente per scontato. Per me il migliore di tutti è racchiuso in una frase che mi sono sentito dire mille volte da giovane: un giorno capirai. Il prossimo settembre compirò cinquantasei anni, e ho la barba quasi tutta bianca, ma ancora non ho capito. Non solo, ma il fatto di non aver ancora capito non mi pare affatto la prova della mia stupidità, bensì proprio dell’erroneità del luogo comune. Non capisco anche perché sono un uomo maturo lievemente differente – non nel modo in cui lo ero da giovane, ma comunque diverso. Per esempio non mi sembra che la mia vecchiaia mi dia il diritto di giudicare le scelte dei più giovani, come facevano gli adulti con me. Non credo che la mia esperienza di vita mi ponga su un piano più alto, o che sia la principale delle mie risorse. Certo, ne ho più di un ventenne, ma non mi è mai sembrata una cosa decisiva: lui ha più fiato e più energia. E allora? Certo che la mia esperienza mi aiuta, per esempio nel lavoro. Però l’esperienza a volte fa brutti scherzi, ti fa rifare sempre le stesse scelte, perché ormai lo sai come funzionano le cose, come gira il mondo. A volte sarebbe quasi meglio non averne – quasi.
Un altro aspetto interessante dell’invecchiare senza prevenzioni è proprio il rapporto coi giovani. I quali naturalmente si aspettano un signore maturo e esperto (il che è in qualche modo vero) che li tratta con condiscendenza; mentre ovviamente io, che in quanto vecchio posso stabilire le regole, li tratto come fossimo persone senza età, nel bene e nel male. E non perché sono gentile, ma perché detestavo il modo in cui si minimizzavano le mie opinioni in passato: so’ giovani, un giorno capiranno. Non solo: quando incontro un cinquantaseienne come me, non mi pare di avere niente in comune con lui/lei per via del numero. Ho amici ottantenni, e anche trentenni, mi sembrano tutte persone diverse a prescindere dai numeri (e aver visto gli stessi cartoni da bambini non significa proprio niente).
Intendiamoci: invecchiare ha le sue rogne, a volte davvero spiacevoli. Però penso che possa succedere anche senza renderci gente spiacevole (come quelli che sfottono Renzi sulla sua età), giudicante o callosamente disillusa. Senza l’obbligo di diventare supponenti o sentirci superiori. Un dialogo schietto e sensato tra generazioni è possibile soltanto se noi più vecchi proviamo a uscire da quelle logiche – che abbiamo patito moltissimo in passato, almeno io. Se poi ti devi proprio tingere il pizzetto, mi pare il male minore: in fondo ne va soltanto della tua dignità.