Uno dei tormentoni italici è quello sui presunti plagi che ogni anno affollerebbero il Festival di Sanremo; Un esercizio piuttosto stolto, considerando come funziona il Pop – dove è essenziale che una canzone ne ricordi un’altra, e nei casi più riusciti molte. Stolto ma, considerando la filosofia del diritto d’autore contemporanea, non completamente insensato. Il plagio infatti esiste, quantomeno nella giurisprudenza, e non riguarda solo il numero di battute identiche necessarie per dichiararlo. Si possono plagiare delle soluzioni: nel famoso brano Brava di Mina, per esempio, una delle soluzioni è che mentre il testo dice: “Su, vado su, vado su” anche la melodia sale. Questo meccanismo fu copiato da qualcuno, e ci fu una causa vinta dagli autori originari.
Naturalmente il diritto d’autore arriva molto tardi; per millenni il repertorio è stato un oggetto magmatico e cangiante, anche per via del modo in cui la musica si propagava: non scritta, ma ascoltata e ripetuta, e quindi arricchita, integrata, personalizzata. Le canzoni giunte fino a noi sono solo l’ultima versione, magari la prima a essere registrata. Nella musica popolare la linea tra autori e esecutori è molto sottile; questo è vero anche nel Jazz e in tutte le musiche di derivazione Popular – incluso il Pop sanremese. La differenza sta proprio nel Diritto d’autore, che se da un lato tutela gli autori, dall’altro si pone in contraddizione con la storia della musica che si propone di tutelare.
Uno dei brani fondativi del Blues è Catfish Blues, registrato per la prima volta nel 1928 da Jim Jackson. Ognuna delle versioni successive, circa una ventina solo fino al ’45, introduce delle variazioni musicali e testuali sul tema di base: “I wish I was a catfish, swimming in the deep blue sea, all you good looking women, fishing after me”. (Vorrei essere un pesce gatto che nuota nel mare blu, e tutte voi belle donne cercate di pescarmi.) La versione più popolare di questa prima fase è quella di Robert Petway del ’41. Poi, nel ’50, se ne impossessa Muddy Waters. La sua prima versione si chiama Rollin’ Stone (Catfish Blues). La musica è un’evoluzione della versione di Petway, e il testo inizia con la metafora del pesce. Però poi al terzo verso Waters canta: “Well, my mother told my father, just before I was born, I got a boy child’s comin, He’s gonna be a rollin stone” (Mia madre disse a mio padre, prima che io nascessi, ho un maschio in arrivo, e sarà una pietra che rotola – nel senso di un nomade, un irregolare). Qui la questione si complica: chi conosce il blues avrà notato che questa frase è una variante di Mannish Boy, classico di Waters del 1955 scritto in risposta a I’m a Man di Bo Diddley (1954), canzone a sua volta ispirata a Hoochie coochie man di Waters (1954).
Ma non è finita: la splendida melodia di Rollin’ Stone compare in Still a Fool del ’51, da molti considerato uno degli apici del lavoro di Waters, e una delle massime espressioni del genere. Dell’allegra sbruffonaggine sessuale di Catfish non c’è nemmeno l’ombra – eppure la canzone è la stessa. La morale è semplice: se qualcuno avesse depositato Catfish Blues alla SIAE nel ’28, niente di tutto questo sarebbe potuto succedere. Se qualcuno avesse depositato il blues in 12 battute non avremmo avuto il rock’n’roll, che infatti è tutta una storia di copiature, imitazioni e cover. Sono naturalmente favorevole al diritto d’autore, essendo io un autore. Penso però che la questione sia delicata, e il jazz sia un buon esempio. Non è un caso che i jazzisti chiedano da anni che venga loro riconosciuto un diritto come co-creatori. Un’idea sacrosanta, che andrebbe estesa a tutta la musica Pop.