Meglio il libro del film

Come sa chiunque abbia qualche curiosità sul tema, oggi è possibile trovare porno di due generi. Da un lato c’è quello classico con tettone, dimensioni impossibili e testosterone a vagoni; dall’altro ci sono gli Amateur, quelli che si fotografano come parte del gioco sessuale; la fotografia digitale naturalmente rende possibile questa seconda modalità, più contemporanea e costantemente in espansione – anche grazie alle nuove tecnologie, sempre più piccole e sensibili. Naturalmente esistono moltissime aree di contatto tra i due mondi.

Quindi si potrebbe sostenere che il porno del terzo millennio spinge verso la realtà, la cronaca, il documentario, mentre quello industriale, passatista, si basa sulla finzione, la recitazione, il montaggio, insomma Hollywood. Ma non è così semplice. L’attenzione verso la realtà infatti ha una storia assai più antica, e esplode con la popolarità della cronaca (nera, ma anche rosa) negli anni ’50. La quale ha sempre avuto come ingredienti il crimine (meglio se efferato), lo stile di vita (fastoso, o anche perverso e degradato) e la relazione tra i sessi (che fosse amore, turbine di passione o ambedue). Uno splendido esempio di questo stile di giornalismo resta il settimanale Cronaca Vera, circa 300.000 copie vendute, il cui nome è già un manifesto programmatico, e il cui richiamo principale è proprio legato alla supposta verità della cronaca: “Sposina ingenua cede alle lusinghe telefoniche di un anonimo innamorato: denudata per strada dal marito che finge di essere l’amante”.

Già negli anni ’30 sesso, droga e perdizione andavano insieme, e c’è tutta una biblio/filmografia dedicata a questo genere. Il romanzo Marijuana, weed with roots in hell, 1935, promette di raccontare “Cosa succede ai Marijuana party: orge bizzarre, feste selvagge, passione senza freni!”. Ancora negli anni ’70 il mito dell’autostoppista stonata e disponibile veniva perpetrato da film e fumetti che si proponevano come docu-drama, storie di vita vissuta, memoriali. The Swinger, nel numero di dicembre ’70 titola: “Hippie trafficanti: mutandine e reggiseni ricolmi di hashish.”

Anche il porno del boom economico, rigorosamente soft (c’era anche l’hard, ma sottobanco), aveva un approccio simile a Cronaca Vera, e il suo principale appeal consisteva nel raccontare luoghi esotici e comportamenti sessuali non abituali. Ecco i titoli di Vue, fine anni ’50: “Esclusivo! Vergini del culto dell’amore di Bali”, “Tutto vero: ho assistito a un omicidio rituale!”, “Parla lo psicologo: la nuda verità sulle star più nude”. Gli ingredienti ci sono tutti. Innanzitutto l’esotismo, sia di marca National Geographic che legato ai due luoghi del mito sessuale dell’epoca, Parigi e la Scandinavia. Kingsize (1975) titola: “Svezia, la zona erogena del pianeta”; Photo, qualche anno prima, ha uno speciale “Inside Capri, gay and daring resort”. Poi la vita vissuta: “Ho fatto strip tease a 16 anni”, “Confessioni di una donna stupratrice”. E infine il fasto, l’irraggiungibile, uno degli ingredienti dello show business ma anche una delle aree di scatenamento della psiche collettiva: Male Life (dei tardi ’50, con Bettie Page in copertina) titola: “L’uomo che disse di no a Ava Gardner.”

Un porno niente affatto soft, mi sembra, anzi. C’è lo stesso scarto tra letteratura e cinema, e l’immaginazione è uno strumento potentissimo. Insomma il porno tradizionale promette sesso esplicito, finzione, effetti speciali e un lieto fine; l’azione è esterna e noi siamo osservatori. Questa pornografia invece, curiosamente simile a quella ipermoderna, suggerisce molto più di quello che mostra, è reale (o dice di esserlo) e si svolge perlopiù nella nostra mente, che integra le parti mancanti secondo il nostro gusto. Più interattiva insomma, o come direbbe McLuhan, più calda: proprio come dovrebbe essere il porno, no?

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