Metodo

Tra i nomi del Rap ho sempre trovato superlativo quello di Method Man, e non solo perché come rapper resuscita i morti; il suo nome evoca una delle poche cose veramente importanti nel campo della creatività: il Metodo.

Chiariamoci subito: un tipo metodico non rappresenta certo il mio ideale di artista. Per Metodo intendo un’altra cosa, che provo a spiegare in questo articolo. Dice il dizionario: “Modo di procedere per ottenere risultati”.  E io aggiungerei: “Necessario in tutti i processi creativi quanto e forse più della tecnica”. Facciamo un esempio musicale: molte band sanno suonare decorosamente ed hanno un cantante pelato, attraente e carismatico, ma una sola è i Rem. Cosa li distingue dai molti altri musicisti anni ’80 che oggi invece lavano macchine in Georgia? La capacità di adattarsi alle mode e cambiare? Non parrebbe, dato che la chiave del loro successo non è nella strabiliante novità di ognuno dei loro album; al contrario, il segreto sta proprio nell’applicazione maniacale del Metodo Rem, che alla fine produce quasi sempre “la stessa canzone”. Certamente con delle variazioni e un’evoluzione, ma all’interno di uno spazio che se paragonato a tutte le musiche possibili del mondo è proprio piccolo. Il risultato dell’applicazione di un buon Metodo, che comporta una certa disciplina e alcune privazioni (come rinunciare a tutti gli altri metodi per applicare sistematicamente il proprio) è uno stile sempre riconoscibile, diverso eppure sempre uguale – che è il marchio di quelli bravi.

D’altronde scrivere sempre la stessa canzone (o dipingere lo stesso quadro, scrivere lo stesso libro, etc.) è considerato uno dei tratti distintivi del genio: si è detto di James Brown, di Elvis, dei Ramones, di Marley e di Rossini. Ma il Metodo può essere molto pericoloso; ci sono stati grandi artisti e movimenti culturali bloccati fino alla paralisi da un metodo troppo rigido: per esempio il Free Jazz – imploso in se stesso perché schiavo di un Metodo senza sbocchi. Tutto il lavoro di Carmelo Bene (uno proprio bravo bravo) riguarda anche l’ossessione per un Metodo, fino alle più estreme conseguenze.

Il Metodo è come un po’ un codice, un set di istruzioni che per essere efficace richiede una certa disciplina. Se decidi di fare del blues, puoi metterci i ritornelli a valzer e suonare il tutto con la cornamusa, ma se non sei gli Elio (una band peraltro spesso profondamente metodista) è facile che il risultato sia disarmonico e casuale. In molti casi il Metodo è il bandolo intorno al quale si fila la creatività. Possono essere Metodo molte cose diverse: una formazione (il trio rock è un classico esempio), uno stato d’animo che l’artista si induce  (molto comune nella pittura ma anche nella performance) o una o più regole stilistiche (come Runyon che scriveva senza usare mai il tempo passato o Perec che ha scritto tutto un romanzo senza la E). Ma occhio: il metodo non è tecnica (i tecnicisti sanno sempre prima come andrà a finire, mentre i metodisti sono i primi spettatori dello svolgersi degli eventi). La tecnica è universale ed oggettiva, mentre il Metodo è personale e può anche essere molto irrazionale: la prima delle due melodie del Bolero di Ravel si sviluppa solo sui tasti bianchi del piano, mentre la seconda inizia con un tasto nero. Si sente? Non direttamente, ma si percepisce: tutti conosciamo le note di quei tasti. Era così importante che fossero solo bianchi? Si e no; no perché alla fine quello che conta è l’effetto della melodia; e sì perché in modo forse indiretto, magari quasi subliminale, il Metodo (stavolta sotto forma di regola) traspare all’ascolto, forse pure se non lo sai. E’ un’armonia, una successione, una coerenza impercettibile ma possente: insomma è Stile.

Dice: “Ma io sono moderno, e il mio metodo consiste nel non avere un metodo.” Complimenti: è la via più difficile, che nella storia finora non è riuscito a percorrere nessuno. Anzi, mo’ che ci penso, più gli artisti mi sembrano grandi e immortali e più essenziale è il perimetro (concettuale e a volte proprio reale) della loro tavolozza.