Minimo tre chili

All’inizio la musica era nell’aria e basta: non si scriveva, né si registrava ma si suonava e cantava. Sentivi una canzone, ti piaceva e la facevi tua. Il concetto stesso di autore era infatti molto diverso: si poteva sostenere di aver “inventato” una melodia, ma questa veniva naturalmente modificata dalla memoria degli altri interpreti, che diventavano a loro volta autori cambiandola a loro gusto (o a loro poca memoria). La musica passava di bocca in bocca, di orecchio in orecchio, e per sentire una canzone non si poteva chiamare Radio Soufflé e chiederla ma bisognava ricordarla e cantarsela – o conoscere qualcuno che la sapesse.

La nascita della riproduzione cambia tutto; non solo diventa possibile possedere e ascoltare all’infinito musica registrata, ma anche scegliersi l’esecuzione più attraente. Il tenore Enrico Caruso diventò una grandissima star proprio grazie al fatto che registrava i dischi (che allora erano a 78 giri e duravano poco più di tre minuti per parte) consentendo a chiunque di avere Caruso che cantava in salotto. Il limite di tre minuti imposto da quel formato causò la nascita della canzone come la conosciamo noi oggi. Il 45 giri, nato negli anni ‘50, ha più o meno la stessa durata e infatti il rock’n’roll ha come forma unica la “3 minutes song”: è il primo genere che nasce già adatto per la tecnologia che lo diffonderà.

E’ solo negli anni ‘60 che arriva il long playing, chiamato così proprio per contrapporlo alla brevità del 45 giri. All’inizio si trattava di raccolte di singoli (un sistema interessante e attuale: si pubblicavano 10 singoli e quindi si raccoglievano su un album); poi, intorno al 1970, si inizia ad esplorare la possibilità di usare i 40 minuti concessi dall’lp per creare musica diversa, sia per formato che per concezione. Di quel periodo (un tempo strano, di progressive rock e di sperimentazioni in molti generi, dal jazz al soul) restano alcune pietre miliari: The Dark side of the Moon, per esempio, che viene pensato come un’opera unica di 40 minuti che infatti i Pink Floyd eseguono dal vivo integralmente. Oppure Hot Buttered Soul di Isaac Hayes, un album di soli tre pezzi tra cui l’immortale “By the time I get to Memphis” di 19 minuti.

Nell’84 arriva il CD che contiene fino a 79 minuti di musica. Mentre l’industria ammucchia soldi ristampando gli lp su cd e rivendendoci l’inverosimile (ma senza costi industriali), gli artisti iniziano a misurarsi con questo nuovo formato – con esiti deludenti, e si può capire. Infatti ai tempi dei singoli era facile: un pezzo buono, una B side (spesso bella quanto e più della A) e via. Con l’LP le cose si complicavano e di brani ce ne volevano 7/8, ma niente in paragone al CD, che ne contiene 15/20. Quand’è stata l’ultima volta che tu (o mio lettore) hai comprato un CD con dentro 15 pezzi buoni? 10? 7? 5? Raro. Il CD è sempre rimasto un grosso LP, col doppio della musica ma lo stesso numero di brani buoni (e in più la beffa delle bonus tracks).

Internet riporta il problema alla “3 minutes song”; pochi si scaricano un intero CD, ma solo i brani che funzionano. Una cosa impensabile ai tempi dei Pink Floyd, una regola durissima per artisti meno immediati (che però hanno altri enormi vantaggi dalla rete) ma purtroppo un dovere nell’epoca dei CD pieni di fuffa inutile. Ecco perché sorprende il recente appello contro la vendita online di singoli brani, sulla base che il CD è un’opera unica e indivisibile e va comperata intera; un appello perdipiù fatto da artisti (Linkin Park, Metallica, Green Day e Red Hot Chili Peppers). Ma come: in passato sui nuovi formati sono nati dei generi (e l’LP fu salutato come strumento di libertà da un’intera generazione) e adesso col medium più libero che esista tu mi resti incollato al CD e al tuo fuffame? Considerando però i bei nomi promotori e l’indice ciccia/fuffa dei loro cd, mi pare chiaro che siamo di fronte ad un tipico caso di creavidità, disturbo tipico di certi artisti nel terzo millennio.

La notizia è qui: www.antimusic.com/news/03/july/item3.shtml