Una delle funzioni più belle dei vari generi musicali è quella di definirci e differenziarci dagli altri. Ovviamente vado fiero di avere gusti musicali diversi da quelli di Borghezio o Berlusconi. Ma la questione è più complessa e sottile, e persone della stessa generazione possono divergere anche ferocemente sulla musica preferita. Ricordo ancora con affetto le crudeli espressioni che noi amanti del Funk rivolgevamo ai ciuffettoni tristacchioni dediti alla New Wave nei rutilanti anni ’80 (per i quali all’epoca inventai l’espressione “Smiths is murder”). La passione per un genere musicale, specie quando si è guaglioni, spesso diventa uno stile di vita, un’estetica che permea molte delle scelte anche importanti.
Poi per fortuna si cresce e, se si continua a coltivare la passione per la musica, uno amplia, diversifica, magari si aggiorna (e non come certi babbioni della mia generazione che “Ah, pero’, vuoi mettere i Pink Floyd?”), scopre nuovi generi e si ricrede su altri che aveva scartato (un po’ come è successo a me coi primi Joy Division, anni dopo). Io, per esempio, da qualche anno coltivo una terribile perversione musicale per un brano famosissimo, popolarissimo e molto amato dal grande pubblico – una cosa difficile per un tipo ricercato come me (e, suppongo, molti di voi). Non solo, ma scasso il cazzo al mondo intero (inclusi voi, proprio adesso), lo suono ai miei studenti, e recentemente l’ho sottoposto a un curioso trattamento. Il brano è il Bolero di Maurice Ravel. Se lo detesti (fatto molto comune) occhio, il resto di questo articolo potrebbe irritarti. Questo è un brano che non conosce mezze misure, in tutti i sensi.
Scritto da Ravel nel ’28 su richiesta della danzatrice Ida Rubinstein, il Bolero è un assurdo musicale in molti sensi: ha due sole melodie, una più soave, l’altra diabolica, che si ripetono incessantemente, due volte ciascuno, per un quarto d’ora circa senza cambiare mai. Quello che cambia è il volume (che cresce dall’inizio alla fine) e gli strumenti che suonano. Il tempo (“Tempo di Bolero moderato assai”) dovrebbe essere inesorabilmente lo stesso dall’inizio alla fine; su questo punto Ravel scazzò duramente con Toscanini, direttore star dell’epoca, che lo suonò più veloce – sostenendo di aver salvato il brano. La questione della velocità è essenziale, ed è perfettamente sintetizzata da questa citazione di Sergiu Celibidache, direttore d’orchestra rumeno: “Il Bolero, se lo suoni veloce è troppo lungo. Se lo suoni lento invece, è troppo corto.” Perché quando è lento si viene ipnotizzati dalle melodie, e si vorrebbe che non finisse mai. Bella frase, detta da uno la cui versione del Bolero dura circa il 20% in più del solito (e fa davvero paura). E attenzione: quella frase vale per una gran quantità di musica insospettabile, come ad esempio “No woman no cry”. Infine una nota tecnica: il Bolero è piuttosto semplice da suonare ma se si sbaglia si sente subito, e per gli orchestrali di solito è un incubo.
Recentemente ho deciso di metterci le mani, e ho realizzato Boleros, una specie di remix realizzato usandone quattro esecuzioni diverse, semplicemente sovrapposte. Il pezzo è diviso in tre parti uguali, che durano quanto la versione più lunga che ho usato (quella di Karajan, circa 16 minuti). Nella prima parte i Boleri partono insieme (e, date le diverse durate, arrivano al gran finale separati), nella seconda si incontrano al centro, e nell’ultima si inseguono per tutto il tempo, per poi incontrarsi sull’ultima nota. Questo genere di operazioni di solito suona bene a leggersi, ma meno a sentirle. In questo caso invece sono orgoglioso di annunciarvi che l’ascolto è un’esperienzona, un Bolero frattale che in certi momenti pare Stravinski, in altri Philip Glass, e che il finale della terza parte è davvero un Bolero alla quarta. E’ il mio primo pezzo americano, lo allestisco in una galleria d’arte qua a Chicago il mese prossimo, con quattro casse e il volume a palla – che certe buone abitudini per fortuna non si perdono mai.
Ciao Sergio,
leggo ora questo pezzo.
Come forse avrai capito, sono quello che ogni tanto ti rompe con il rockabilly.
Ma hai ragione da vendere: uno stile musicale così tanto amato diventa parte di te se, quando cresci, la passione cresce con te. E non parlo solo di giubbotto di pelle, scarpe a punta e ciuffo di capelli (quello c’era di più tempo fa…).
No.
Io sono portato a vestirmi e a pensare in un determinato modo – sebbene l’incipit lo abbia assorbito nel 1985, da lì in poi ho fatto tutto da solo, senza farmi influenzare da terzi.
Oggi (2008/2009) c’è un ritorno al rockabilly, ma chissà perchè, è incrociato con la cultura pseudo-punk, e infatti non è una cosa che fa per me, non è “la mia cosa”.
Complimenti per lo stile, ad ogni modo.