Non so se avete notato, ma ultimamente quello che una volta chiamavamo la rete del mondo intero (world wide web) si sta restringendo. Internet naturalmente c’è sempre, ma molti dei servizi che utilizziamo si vanno localizzando. L’esempio perfetto è Google, che dall’Italia si ostina a dare i risultati relativi al web in italiano, anche se il nome che hai scritto è inglese, tedesco o spagnolo, perfino se cerchi un’immagine. Poi, volendo, si possono effettuare ricerche su altri Google, ma non è una delle opzioni e bisogna trafficare un po’. Chi frequenta l’iTunes music store sa che non può uscire dal negozio italiano, anche solo per vedere chi c’è in classifica in Corea. Il motivo di queste restrizioni è molto semplice: la malvagia schiavitù al denaro, al marketing e alla pubblicità. Questa politica diventa ferrea quando si parla di diffusione di contenuti protetti da copyright, accessibili gratis o a pagamento: da Spotify a Hulu fino a Youtube, è un continuo di cartelli “Ci dispiace, ma questi contenuti non sono disponibili nella tua zona”. Anche qui la ragione è semplice: questioni di soldi, di diritti, di pubblicità – magari legittimi ma secondo me perniciosi.
In molti infatti stiamo imparando le lingue, e specialmente l’inglese. Ottimo, per mille ragioni: conoscendo bene quella lingua si lavora di più, si ride di più, si scopa di più, si ascolta musica migliore (e in maniera più cosciente), si è esposti a altre culture, e non solo quella anglo-americana: che ci piaccia o meno l’inglese è l’Esperanto di oggi, e a conoscerlo bene cambia davvero tutto. Si è in grado di partecipare a un discorso globale nel quale si trovano ingredienti essenziali per capire il mondo. Un discorso ampio e complesso, che riguarda aspetti importanti della nostra vita come l’economia e la politica, ma anche la musica, l’arte, lo skate, la droga, il porno, ecc. E’ un discorso che si articola su internet ma non solo: film, libri, fumetti, anime, serie televisive, comicità, notizie e saperi non tradizionali e via dicendo.
Io ho avuto fortuna in questo settore: ho imparato l’inglese da guaglione, e devo dire che nella mia vita ha fatto la differenza. Se il mio spettro di comicità fossero le Iene, Zelig o La Littizzetto sarebbe terribile. Invece posso cercare Bill Hicks, Don Rickles, Louis CK, Katt Williams e Kristen Schaal, seguire Jon Stewart e Colbert (disponibili legalmente gratis in rete) e cambiare aria. Altrove infatti esiste qualcosa che si chiama libertà di parola. Sì, certo, c’è anche qui. Ma fino a quando non hai sentito che dice Stewart di certi politici americani non sai proprio cosa significa. E’ solo un esempio di come oggi si possa uscire culturalmente da questo buco (dove arrivano solo dei frammenti del discorso di cui sopra, filtrati dall’alto) e riprendere fiato.
Ovviamente partecipare a questo discorso dall’Italia richiede degli sforzi, alcuni illeciti civili e il rischio di multe e azioni legali: molte cose sono poco reperibili, e bisogna imparare a usare Bittorrent per procurarsele. Gli e-book in lingua originale sono ancora poco disponibili e hanno prezzi ridicoli. Lo streaming di programmi e serie tv dall’estero è spesso interdetto, e lo scaricamento complicato. Le ragioni di questa situazione hanno anche a che vedere col fatto che l’inglese qua si conosce poco, e che quindi c’è poca richiesta di contenuti originali. L’immonda pratica del doppiaggio ha contribuito molto. Il risultato è un provincialismo sconfortante, una separazione culturale dal resto dell’occidente e il rintontimento del dibattito: tutto il mondo si interroga sul fenomeno dei Maker, che rivoluzionerà la produzione di oggetti come il digitale ha fatto con la fotografia, e noi stiamo qua a chiederci se le Veline siano femministe. Altrove si discute sulla tosta e controversa serie tv inglese Life’s too short (esilarante docu-drama sulla vita di un nano) e noi… noi no: non è in onda, e forse non ci andrà mai.