Mentre scrivo è in corso in tutta Italia la civile ma ferma protesta del cinema, del teatro e della lirica contro i tagli al FUS, il Fondo Unico per lo Spettacolo. Naturalmente sono a favore del FUS, mi fa molto piacere che autori come Brecht o Brahms siano rappresentati (quasi esclusivamente grazie a questo fondo), così come che vengano prodotti i film dei nostri autori. E mi allarma il fatto che i lavoratori dello spettacolo siano a rischio disoccupazione. Siccome però, lo confesso, non sono un cliente del Teatro alla Scala e non tornerei a vedere Madre Coraggio di Brecht nemmeno pagato, in quest’occasione vorrei parlare di una figura essenziale per la mia cultura (e forse anche per la vostra) che non solo non ha mai visto un euro del FUS, ma deve combattere mille ostacoli burocratici e politici solo per poter esprimere la sua proposta culturale – che naturalmente non viene riconosciuta come tale da quasi nessuna istituzione.
Ce n’è uno (o più) in ogni città italiana. Oggi ha intorno ai 40/50 anni, ed è tuttora senza un lavoro stabile. A volte ha alle sue spalle un percorso politico, altre volte invece lo spinge esclusivamente la sua passione per un certo genere musicale. Ha iniziato da giovane; poi, via via, si è accorto di aver accumulato esperienza e ha iniziato seriamente a pensare di poterci vivere. Molto spesso queste figure sono legate a dei locali, a volte degli interessanti luoghi ibridi, specie nelle piccole città: un po’ club, un po’ sala da concerti, un po’ info shop-centro culturale, un po’ alternativa alla strada, di solito questi luoghi hanno birra economica e un certo grado di permissivismo. Ci sono aree depresse del nostro paese, specialmente quelle ricche del nord, dove questi luoghi sono l’unica alternativa al fast food. Insomma: luoghi strategici per l’offerta culturale.
In questi posti abitualmente la programmazione è mista, e copre quasi tutte le diverse aree d’interesse di questo giornale: musiche minori o nuove, generi tradizionalmente alternativi (come il reggae), tutti i vari “rock” e perfino le avanguardie. Molto spesso sono i posti dove si esibiscono per la prima volta i giovani gruppi locali, in un’atmosfera meno scadente del concorso rock organizzato dalla provincia (e quello sì finanziato con soldi pubblici) dove vince il figlio del vice-sindaco. Quindi, dal punto di vista dell’offerta culturale, questi luoghi – e le persone che li animano (spesso a titolo gratuito) – svolgono una funzione essenziale, propagando idee e stili diversi rispetto ai modelli dominanti.
Questi luoghi (a volte temporanei, come nel caso dei festival) sono spesso gestiti da gruppi di persone di diverse età, ma nel mazzo c’è sempre questa figura adulta. Uno, o una, che ha iniziato (magari vent’anni fa o più) perché sentiva che spingere certi stili aveva anche un valore di cambiamento (il rap italiano all’inizio si è sviluppato sostanzialmente grazie a luoghi come questi, Centri Sociali o meno) e perché l’offerta culturale dell’area era talmente desolante che un posto così urgeva. Alcuni si sono persi per strada, ma moltissimi di questi sono ancora lì, sul pezzo, a svolgere anche un ruolo importante di congiunzione tra il passato (che naturalmente ispira e pervade tutte le culture Pop) e il futuro. Queste persone sono localmente importantissime; tesoretti di storia del pop locale, e a volte veri eroi della musica alternativa. Che in certi casi hanno letteralmente sacrificato alcune potenzialità della loro vita in nome di questo fuoco. Qualcuno naturalmente ci ha anche guadagnato e non mi sento di biasimarlo, se l’ha fatto onestamente, ma in molti ci hanno semplicemente campato.
Queste persone, e questi luoghi (che non nomino per non scordarne qualcuno, ma sapete tutti di chi parlo) sarebbero i miei destinatari primi di qualsiasi fondo per lo spettacolo. Perché, e mi dispiace per Brahms e Brecht, il mio cuore culturale batte altrove, e mi scoccia moltissimo dover finanziare loro e lasciare col culo nell’acqua (tanto per dire) Interzona di Verona che invece è utilissimo, urgente e soprattutto ancora in vita.